di Andrea Friscelli
Per la rubrica uno “strizzacervelli” in cooperativa vi racconto oggi una storia che non so bene come catalogare: successo o insuccesso? Penso che con Renzo – questo il nome del protagonista – la cooperativa abbia svolto una funzione di sostegno e di riduzione del danno, qualcosa che sta nel mezzo tra successo e sconfitta: una sorta di pareggio ma che ha una valenza sociale importante.
Alla fine degli anni Settanta, all’epoca cioè dell’episodio che sto per raccontare, il reparto di Psichiatria del S. Maria della Scala era collocato al terzo piano, nell’ala prospiciente il Duomo, sopra la clinica Neurologica. Erano spazi un po’ angusti per i 30 malati che poteva contenere e per questo non c’era uno spazio apposito per i pasti dei degenti. Veniva apparecchiato nel corridoio, nessuna finestra, neon sempre accesi, insomma non un granché. Ed eccoci, dopo aver sommariamente descritto i luoghi, alla cronaca dell’episodio. È l’ora di cena, fervono i preparativi ed il ricoverato Renzo girella nel reparto un po’ confuso, con un atteggiamento vagamente provocatorio. Entra nello studio di un medico, inavvertitamente rimasto aperto, e mette tutto all’aria, scaraventa in terra libri, appunti ed altro senza provocare danni irreparabili, ma lasciando come una firma del suo passaggio. Poi si mette a tavola con gli altri pazienti e inizia a mangiare una ciotola di riso al burro (mi pare) ma che ha una consistenza un po’ liquida. Ed ecco che il medico a cui è stato messo a soqquadro lo studio, inviperito si avvicina e interroga Renzo sul perché di quel comportamento. Renzo lo ignora ed allora il medico con un gesto impulsivo, prende la ciotola del riso e gliela rovescia in capo. E qui avviene la cosa più notevole: il comportamento un po’ da matto del medico quasi costringe Renzo a recuperare un’immediata lucidità. Si alza per andare a lavarsi e dice, cercando la solidarietà di chi c’è intorno, “m’hanno rovesciato in capo il riso, io mi domando se questo è il comportamento da tenere verso un ricoverato?”. Quel gesto istintivo del medico e certo da non proporre come strategia terapeutica ha come stravolto i ruoli. Il medico ha fatto il pazzo e Renzo, quindi, sveste il comportamento da confuso e con una recuperata lucidità, chiede ragionevoli spiegazioni.
È stato questo il modo con cui ho conosciuto Renzo e quella scena, a cui assistei – in verità –leggermente interdetto, resterà per me sempre indelebile nella memoria. Una scena che suggerisce tante considerazioni, tra le molte quella di ordine diagnostico che a volte anche il disturbo psichico è una sorta di abito indossato che un gesto imprevisto può spazzar via. Renzo infatti era un giovane di buone capacità che da non molto si era inoltrato nella carriera psichiatrica. Un esordio un po’ anomalo visto che insorgeva tardivamente, verso i trent’anni, in una persona che fino ad allora aveva studiato conseguendo brillantemente una laurea in Economia e Banca e che aveva cominciato a lavorare presso una nota banca cittadina. Figlio unico, di famiglia modesta ma dignitosa che aveva investito tutto su di lui. I genitori lo vedevano come la speranza di una risalita sociale che gli studi ed il lavoro in qualche modo garantivano. Era, inoltre, un ottimo suonatore di strumenti a plettro, conosceva bene la musica e aveva un’impostazione da chitarrista classico. Per questo si era inserito benissimo in un una delle prime formazioni musicali che ripropose, attraverso la pubblicazione di alcuni dischi, il repertorio delle vecchie canzoni senesi.
Poi l’equilibrio si era spezzato, Renzo aveva cominciato a smaniare per il lavoro che non gli piaceva ed aveva protestato presso la banca. Gli avevano cambiato collocazione, destinandolo ad uno squallido archivio che aveva ancor più aumentato la sua voglia di andarsene. Provocando naturalmente grandi timori nei genitori che vedevano nell’impiego in banca la garanzia di una stabilità. Ma perché in Renzo era insorta quella insofferenza? Forse anche per un progetto religioso che si portava dentro da tempo: voleva andare a Monte Oliveto a fare il frate di clausura. Difficile dire se questo pensiero fosse a monte o a valle dei suoi disturbi, ma insisteva su questo tanto che ebbe la possibilità di fare un periodo di prova presso il monastero. Ma la prova andò male ed i frati gli chiesero gentilmente ma fermamente di non tornare più.
A questo punto avvenne il ricovero di cui ho raccontato un flash. E che fu solo l’inizio di un lento declino in cui Renzo perse alcuni dei riferimenti che lo avevano guidato fino ad allora e non trovò più un’identità certa. Lasciò il lavoro in banca e si baloccò ancora con il progetto di farsi frate, a volte con quello di fare il musicista (tra l’altro comperando costose chitarre che poi non gli servivano) a volte ideando di rilevare dal padre l’attività commerciale con cui quest’ultimo era sempre campato. Intanto la conflittualità familiare cresceva e spesso Renzo tiranneggiava un po’ i suoi soprattutto per avere soldi, a volte invece si ritirava in casa mirando ad un accudimento quasi infantile. Nessun rapporto con l’altro sesso, pochi amici, scarsissima vita sociale, una routine che favoriva il nascere ed il crescere di pensieri strani con sfumature paranoiche, oppure di timori infondati sulla salute. Una specie di guazzabuglio che lo bloccava da tempo.
Per un lungo periodo è stato mio paziente e durante la cura gli proposi di riprendere a lavorare in cooperativa. Avrebbe potuto ricoprire – gli dissi – il ruolo di portiere e centralinista presso l’Università per Stranieri, un lavoro riparato, non impegnativo ma che nello stesso tempo lo metteva a contatto con studenti e professori, che lo obbligava a presentarsi in maniera dignitosa e non trasandata come spesso appariva. Accettò, non ho mai saputo se lo fece per farmi un piacere o per il riconoscimento di un suo reale bisogno. Di fatto lavorò per diversi anni senza creare eccessivi problemi (qualcuno sì per la verità! ma sempre risolvibile).
Vorrei raccontare anche di questo periodo un aneddoto che forse mette in luce le contraddizioni del suo carattere. Quando cominciò a lavorare con noi, gli chiesi di tenere un piccolo concerto di canzoni senesi per gli altri dipendenti ed i loro amici, pensando così di fargli cosa gradita mettendo in evidenza le sue capacità. Il concerto fu tenuto nella attuale sala del caminetto giù all’Orto de’ Pecci davanti ad una ventina di persone (altri dipendenti ed i loro parenti) e durò una mezzoretta in cui Renzo non solo cantò e suonò, ma dette anche per ciascuna canzone spiegazioni e contributi storici. Fu un successo, ma qualche tempo dopo ci tenne a dirmi che non lo avrebbe più fatto, perché “aveva sputato sangue” per prepararsi e stare davanti al pubblico. Capii così che non era disponibile a quasi nulla se non a vivere in disparte e senza “noie”, coltivando nella testa i suoi strani pensieri, i suoi progetti mai pronti per partire. Insomma, il suo nucleo malato era ancora presente, quasi non scalfito, e forse lo avrebbe accompagnato fino alla fine. Riduzione del danno: è questa un’espressione che fa parte del gergo medico, in special modo di quella branca della medicina che si chiama epidemiologia. Cosa si intende? Che a volte quando non si può puntare realisticamente ad un completo controllo di una epidemia di una malattia infettiva, diviene ragionevole tendere a limitarne i danni ed a ritardare certi eventi. Nel caso, per esempio, dell’imponente epidemia di Aids di qualche anno fa, la riduzione del danno (partendo dalla constatazione che certi fenomeni sociali alla base dell’epidemia erano ingovernabili e non si poteva certo pensare di impedirli per legge) consisteva nel puntare ad insegnare e favorire metodiche che almeno riducessero il danno come consigliare rapporti sessuali protetti o l’uso di siringhe sterili.
Credo che la cooperativa abbia attuato con Renzo una strategia di riduzione del danno, offrendogli la possibilità di lavorare e guadagnare, di ricostruire una parvenza di socialità, senza pretendere da lui chissà quale rendimento. Abbiamo insomma per dodici anni (tanto è durato il suo contratto di lavoro con la cooperativa) rallentato la sua inevitabile caduta. Finito inopinatamente quel lavoro (l’appalto ci fu tolto) lui decise che poteva andare in pensione, non volle sentire le proposte di altri lavori che potevamo proporgli e si inoltrò nella fase finale della sua parabola esistenziale