di Andrea Friscelli
Dopo la pausa estiva riprendo a scrivere storie della cooperativa viste con l’ottica di uno strizzacervelli prestato alla cooperazione sociale.
Questa volta però racconto qualcosa di speciale. Infatti, oltre a raccontare un caso ed il suo percorso all’interno della cooperativa vorrei parlare di come questa persona ed il suo ricordo sono entrati nel nostro piccolo olimpo gruppale, quasi come un simbolo di quello che è stato un periodo della nostra storia ma più in generale di quello che è o dovrebbe essere lo scopo del nostro impegno.
Esistono persone, infatti, che loro malgrado magari, finiscono per rivestire un ruolo importante nella storia di gruppi di lavoro come può essere stata la nostra cooperativa. Tanto da diventare gli elementi fondativi nella narrativa quasi leggendaria che dopo tanti anni si afferma nel racconto delle origini.
Roberto è uno di questi. Credo che valga la pena abbandonare i fragili travisamenti che spesso si usano in casi simili, perché in realtà tutti l’hanno conosciuto e su di lui mi è già capitato di scrivere, mi riferisco a Roberto Caracciolo che poi si affermò nella conoscenza di tutti noi come Robertone. Un po’ per il suo fisico allampanato ma anche per la sua mite bonomia. Fu uno dei soci fondatori della cooperativa e partecipò della preistoria della nostra organizzazione connotandone anche con i suoi commenti poetici il tono emotivo che andavamo vivendo. Roberto aveva spiccate tendenze artistiche, poeta, pittore con una tendenza quasi impulsiva ed improvvisa a creare. Si dice che Strauss si svegliasse di notte con una nuova musica in testa e che se la segnasse sul polsino della camicia da notte per non scordarsela. Fatte le enormi, debite differenze anche a Roberto capitava di dover appuntare il verso che gli era venuto in mente su un foglietto che poi magari perdeva o su una mano che poi, dimentico di sé, si lavava perdendo a questo modo il suo capolavoro.
Ma alcuni versi suoi sono rimasti. “All’orto de’ Pecci siam rotolati” – primo verso di una lunga composizione sugli albori della Proposta è forse quello più famoso e che per un certo periodo ci ha tormentato un po’, quasi fossimo diventati l’ultima tappa di un declino mentale e sociale da cui sarebbe stato molto difficile rialzarsi. Poi, più tardi, quando le cose cominciarono ad andare meglio ci potemmo permettere di sorridere di quelle parole, come si fa di un pericolo scampato e diventarono una sorta di talismano che si tiene sempre in tasca pronto a sbarrare la strada ai cattivi pensieri. Ma Roberto oltre questa sorta di aurea mitica che ha assunto nel corso del tempo, ancor più dopo la sua prematura scomparsa, è stato una persona in carne ed ossa con tutte le problematiche personali e familiari che gli resero difficile la vita.
Roberto aveva avuto una adolescenza incandescente di ribellione, confusa e aggressiva. Aveva fatto qualche furto e alla fine aveva scontato tutto pesantemente con un anno di manicomio criminale in quel di Aversa. In quel periodo era piuttosto grasso, con un viso paffuto da cherubino contrastante con il suo umore sempre arrabbiato e aggressivo. Dopo quel lungo ricovero era tornato a casa ridimensionato, molto dimagrito e forse per sempre indebolito nell’autostima. Era diventato docile e pronto ad impegnarsi su quello che gli veniva proposto. In cooperativa si occupava dell’orto e soprattutto del pollaio che in quegli anni era un’attività fiorente. Questo non escludeva che qualche volta si prestasse anche ad aiutare al ristorante che in quegli anni lavorava saltuariamente e soprattutto con le gite scolastiche, il che voleva dire menù concordato (quasi sempre il solito), poche richieste e poche sorprese. Lui era impegnato nell’apparecchiare, nello spostare i tavoli, qualche volta nel lavare i piatti, mai nel servire. Ho già raccontato in uno degli articoli della serie “Ristorante sociale” (Robertone e Giulietta il cuore de la Proposta, il titolo) sempre su Verdeblu di un episodio di aggressività preoccupante da cui fu colto nel corso di una di quelle giornate e non mi ripeto. Lo ricordo solo per segnalare che un Roberto aggressivo era ancora presente seppure sopito e quasi sempre controllato. Era forse per controllare questa sua parte che spesso entrava in un labirinto di pensieri a sfondo religioso, sentiva anche fisicamente la voce di Dio che gli ordinava di non fumare, di dimagrire, di fare una vita di rinunce.
I suoi genitori e la sorella, gli altri della sua famiglia, erano anch’essi personaggi border line con saltuari, franchi sconfinamenti in territorio patologico. La madre obesa e depressa ogni tanto entrava come in un letargo patologico, passivo ed inerte. Il suo comportamento diventava una sorta di buco nero che inghiottiva tutta l’energia presente in famiglia. La sorella che pur aveva un buon lavoro “normale” ogni tanto diventava fatua, ridanciana e sciocca. Il padre infine, forse il più valido in famiglia, covava idee paranoiche in cui i terroristi (in quegli anni tristemente presenti in Italia) o la droga (che nessuno dei suoi figli aveva mai incontrato), spiegavano tutti i guai della sua famiglia. In questo panorama era comprensibile come Roberto sbandasse spesso dal punto di vista emotivo, prendendo quasi sempre le orme della madre, per cui non c’erano speranze, tutto andava male, noi come gruppo non avremmo combinato nulla. Per un periodo fece anche parte del CdA ed i suoi interventi erano sempre del tipo: io non ho capito nulla! Oppure dopo aver esposto un bilancio lusinghiero, arrivava sempre come una doccia fredda il suo commento: ma insomma come va la cooperativa?
Faticoso rimontare dalle sue posizioni e neppure l’assunzione “vera” dopo tanti periodi di “inserimento” lo convinse mai che ce la potevamo fare. Ma nello stesso tempo l’Orto de’ Pecci era diventata la sua seconda casa, una casa dove forse a differenza dell’altra si respirava, nessuno assillava anche solo col silenzio. Era un utente importante del Servizio di Psichiatria e con il sostegno del Servizio da un lato e della cooperativa dall’altro riuscì a superare la morte a breve distanza dei due genitori senza scompensi gravi. Successivamente anche la sorella Giulietta lo diventò, ma sempre con una tonalità diversa e meno drammatica di quella di Roberto. E poi dopo diversi anni di questa sua presenza all’Orto, a volte critica, a volte silenziosa ma tante volte anche sorridente e serena, un giorno ci disse semplicemente che lui non voleva più lavorare, era stanco e non ce la faceva più a seguire il ritmo sempre un po’ più veloce delle attività cooperative. Godeva di una pensione di invalidità e accettammo questa sua volontà. Ma quasi tutti i giorni era con noi, a volte seduto nel prato, a volte incantato a guardare il cielo oppure a raccontarci le sue infinite storielle e barzellette. È come se, sia pure accorciato in un ciclo più breve del solito, avesse percorso le tappe che quasi tutti facciamo verso il lavoro: all’inizio con preoccupazione ma volontà, poi via via che il tempo passa con più calma, fino ad arrivare al semplice e naturale desiderio di smettere.
Mi è capitato spesso di scrivere di lui, forse è stato un modo per ricordarlo dopo la sua morte improvvisa e che lo colse mentre ero fuori Italia. Al mio ritorno quella sensazione di senso di colpa che sotterraneamente avevo sempre avuto nei suoi confronti ebbe come un picco.
Eravamo quasi coetanei e lui rappresentava la parte sfortunata della vita e del destino che io mi ero scampato. La sua fine così improvvisa e solitaria avvalorò ancora di più la mia sensazione.
Poi, col tempo il suo ruolo nella memoria, ma non solo mia, cominciò a crescere e a diventare quella cosa che ho cercato di descrivere all’inizio: una sorta di nume tutelare, disincantato e protettivo che da un lato ci tiene con i piedi per terra e dall’altro però ci incoraggia ad andare avanti ed a offrire qualche opportunità a quelli come lui.
Nel bilancio finale credo di poter dire che è di più quello che lui ha dato e continua a dare a noi, di ciò che noi abbiamo fatto per lui.