di Andrea Friscelli
Il titolo che ho voluto dare a questa nuova serie di articoli per Verdeblù è volutamente provocatorio ed un po’ “trucido”. Mi serve però a mettere insieme due culture ma soprattutto due prassi che più distanti non potrebbero essere. Da un lato l’atmosfera di solito compassata ed un po’ sacrale di una seduta di psicoterapia, luci soffuse, divani, poltroncine e voci basse, dall’altra quella più caciarona, piena di voci alte, a volte di strilli e di tute da lavoro, spesso un lavoro sporco, di cose da fare e di orari incalzanti che si vive in una cooperativa sociale di inserimento al lavoro.
Mi è capitato di vivere entrambe queste atmosfere e per diverso tempo le mie giornate sono state come spezzate in due: in genere al mattino la cooperativa e al pomeriggio lo studio con il lettino. Quando, nel gruppo presso il quale mi sono formato (l’Associazione Fiorentina di Psicoterapia Psicoanalitica) dopo la mia analisi, qualcuno mi chiese di parlare dell’esperienza cooperativa, fui costretto a tentare di gettare un ponte tra le mie due vite, contaminando con concetti analitici la visione della cooperativa ed invece cercando di inserire anche il lavoro con tutte le sue sfaccettature tra gli argomenti che la psicoanalisi in realtà ha sempre trascurato. Il tutto era finalizzato ad un seminario che tenni a Firenze circa dieci anni fa. Quello scritto mi è capitato di nuovo in mano qualche giorno fa e rileggendolo mi è sembrato ancora attuale e decido pertanto di riproporlo, dopo qualche necessaria revisione, dalle colonne del Verdeblù.
Pertanto, dopo una prima parte teorica dedicata alle contaminazioni cui accennavo prima, farò seguire il racconto di una serie di “casi”, di storie relative a persone che hanno attraversato l’esperienza cooperativa in vari modi e con vari risultati. Una cooperativa sociale d’inserimento lavorativo poggia la sua identità sul connubio di due culture: da un lato la cultura aziendale che fa riferimento all’efficienza, alla capacità organizzativa, alla capacità di reggere la concorrenza e di stare sul mercato e dall’altro la cultura della solidarietà fatta dalla capacità di ascolto e di accoglienza, di lettura e comprensione dei disagi, quali essi siano. Possiamo sostenere che il primo tipo di cultura è sotteso da un registro paterno che tende a dettare regole ed a difendere i confini, e che la seconda agisce invece sotto un registro materno che è attento, attraverso una particolare forma di rêverie, a capire angosce e malesseri ed a restituire in cambio proposte, idee, progetti, percorsi di riabilitazione. È evidente che questi due registri devono collaborare e mantenere un loro equilibrio, un equilibrio che deve essere interpretato e difeso dalla leadership.
Lo strumento riabilitativo terapeutico principe di questa esperienza è il lavoro, visto come elemento in grado di diventare un contenuto identitario e come un modo di entrare in contatto con gli altri.
La psicoanalisi ha sempre mostrato scarso interesse per il lavoro, (argomento immenso che, tralasciando tutta una serie di considerazioni di natura sociologica, storica, economica, rappresenta pur sempre una delle fonti principali di relazioni e rapporti tra gli esseri umani), forse per il fatto che ha finito, a causa di una serie di ragioni storiche, per sviluppare una sorta di idiosincrasia verso tutto ciò che concerne il fare, come se il fare portasse stabilmente in sé lo stigma del passaggio all’atto e la sua maligna capacità di evacuare le funzioni della mente o di attaccare la relazione.
In sintesi, all’interno di una cooperativa d’inserimento lavorativo ci si occupa di due cose: produrre merci o servizi e gestire la vita emotiva (almeno una parte) del gruppo, in modo da favorire la cooperazione tra i membri.
La cooperativa “La Proposta” nasce nel 1983 come una costola del Servizio di Psichiatria della ASL 7 di Siena, successivamente, dopo quindici anni di vita, si è del tutto autonomizzata. Adesso, dopo una lunga parabola che ha seguito il più generale andamento economico di tutta la società, è diventata un’azienda di medie dimensioni, svolge qualche attività lavorativa nel campo dei servizi alla comunità ed alle istituzioni (raccolta differenziata e poco altro), ma ha il suo attuale core business nella gestione di un proprio ristorante – bar collocato in uno degli spazi verdi più suggestivi di Siena. La pianta organica comprende 41 dipendenti tra i quali almeno il 40 % di soggetti svantaggiati che provengono in larga maggioranza dal disagio psichiatrico ed in misura minore dall’esperienza della tossicodipendenza o da misure alternative al carcere.
Inoltre, in un’ottica di gradualità formativa, sono inseriti nelle attività produttive una quindicina di soggetti in fase di riabilitazione iniziale per mezzo di strumenti quali borse lavoro, tirocini formativi, inserimenti socioterapeutici. Alla fine del loro percorso possono o essere assunti con regolare contratto all’interno della cooperativa stessa o andare a “spendere” le capacità riconquistate attraverso il percorso fatto, all’esterno nel normale mercato del lavoro.
In questo modello organizzativo succede naturalmente che persone normodotate si trovino a lavorare fianco a fianco con soggetti problematici ed in pratica a svolgere una doppia funzione: la prima è di svolgere il lavoro, la seconda di interpretare un ruolo di educatori dei soggetti svantaggiati nel loro percorso riabilitativo.
Si può facilmente capire come il rapporto tra razionalità ed emozioni sia del tutto centrale in organizzazioni come le cooperative sociali che per definizione e loro “mission” si propongono la promozione umana di situazioni difficili.
Questo compito pertanto si svolge su molteplici piani che possiamo vedere come cerchi concentrici che vanno 1) dalla lettura ed interpretazione del “caso”, 2) alla capacità di interpretare le dinamiche presenti nel gruppo di lavoro o nell’intera compagine sociale, 3) alle opportune metodiche di “integrazione” tra svantaggiati e normali ed al sostegno da dare a questi ultimi per impedire rapidi fenomeni di burn out e la conseguente dispersione di importanti energie positive. Tutto ciò è effettuato utilizzando risorse interne alla cooperativa ed insieme ricercando strettamente la collaborazione con gli enti invianti che sono i depositari, almeno inizialmente, della conoscenza della persona e del rapporto terapeutico.
Il modello organizzativo che la cooperativa si dà, diventa il setting al cui interno il soggetto svantaggiato ha la possibilità di compiere un percorso di apprendimento, o di riapprendimento di una serie di elementi base quali quelle precondizioni lavorative come il rispetto degli orari, la capacità di stare con gli altri, poi di quelle capacità professionali che, nei casi migliori, possano condurre alla conquista di tratti identitari importanti.
Il paziente viene in contatto con la cooperativa, vista come un unico organismo, verso la quale sviluppa tutte quelle dinamiche fatte di identificazione, disidentificazione, idealizzazione e svalorizzazione che caratterizzano quella cosa che si chiama transfert.
In tal senso sono indicativi della relazione che si andrà ad instaurare, i primi approcci che sono generati e mediati da un ente terzo (Servizio di Psichiatria – Sert – Servizio sociale del Carcere) che indirizza verso la cooperativa il paziente, considerandolo pronto a lavorare.
Ma di questo accennerò in maniera più esemplificativa nella prossima puntata.