di Andrea Friscelli
Gli “strizza cervelli” ritengono, a volte a torto, a volte a ragione, di riuscire a intuire da poche cose aspetti importanti delle persone che incontrano professionalmente. Si basa su questa capacità il detto che gira spesso tra loro che fin dalla prima telefonata in cui un potenziale paziente chiede un appuntamento si possano intuire alcune cose importanti, magari dal tono della voce, o da come si porgono le richieste e tanto altro. A volte addirittura si dice che in quel primo superficiale contatto siano racchiuse già tutte le dinamiche che poi avranno bisogno di mesi o anni di terapia per dispiegarsi in modo chiaro ad entrambi.
Qualcosa di simile capita, a mio avviso, anche nei primi contatti con la cooperativa ed includo in questo oltre al primo incontro con le persone anche quello con un luogo che potrebbe diventare il luogo di lavoro del soggetto per qualche tempo, a volte anche per diversi anni. Il paziente viene in contatto con la cooperativa, vista come un unico organismo, verso la quale sviluppa tutte quelle dinamiche (identificazione, disidentificazione, idealizzazione e svalorizzazione) che caratterizzano quella cosa che si chiama transfert.
In tal senso sono indicativi della relazione che si andrà ad instaurare, i primi approcci che sono generati e mediati da un ente terzo (Servizio di Psichiatria – Sert – Servizio sociale del Carcere) che indirizza verso la cooperativa il paziente, considerandolo pronto a lavorare. Tralascio per brevità di parlare delle dinamiche innescate in questa triangolazione (cooperativa – soggetto – ente inviante) in cui talvolta le cose si complicano notevolmente.
I pazienti, comunque, sono in genere titubanti. Spesso ci sono state (soprattutto in passato, ma qualche volta anche adesso) reazioni di rifiuto netto, come quella di Alessandro, paziente gravemente psicotico con tratti deliranti ed aspetti di psicopatia sociale che l’avevano portato a farsi un po’ più di un anno di manicomio criminale, poeta dilettante, che scrisse una composizione per noi ormai divenuta un cult, dove un verso diceva che “all’orto de’ Pecci siam rotolati”, espressione carica di significati negativi che identificava il punto più basso di una parabola esistenziale. Roberto, vecchio utente del Sert, invece ci equiparò ad una colonia penale relegandoci dunque in una posizione di aguzzini carcerieri, a dire poco. Un transfert iniziale di questo tipo è duro da rimontare. Nella nostra storia questo tipo di reazione ha caratterizzato i primi tempi, ed è stato molto importante modificare tale percezione lavorando parecchio sull’immagine che la città aveva di noi e del luogo fisico che ci ospitava.
Siamo, infatti, come ormai molti sanno, collocati all’interno del perimetro del vecchio manicomio, luogo carico di mistero e di vissuti negativi, sconosciuto e mai visitato dai concittadini, dotato di un fascino paesaggistico notevole, ma soffocato da questa pregiudiziale psichiatrica. Adesso (ma ci sono voluti quasi 30 anni) è diventato un parco aperto a tutti e scelto da molti per passeggiare ed anche per cerimonie come matrimoni, feste, ed altro. Il commento di Riccardo, utente di un Sert che è stato da noi per qualche anno, “mi piace questo posto, quando dopo aver attraversato tutta la città a piedi (arriva con il pullman da un paese vicino) entro all’orto, mi tranquillizzo e mi sento in un luogo sereno e protettivo”, pare registrare questo cambiamento.
Ma dopo l’approccio iniziale comincia la fase del vero e proprio lavoro, della scelta dell’attività da svolgere, dell’inserimento nel gruppo di colleghi più adatto, della scelta dell’orario, della precisazione del compenso, di quella cosa fondamentale che è la modalità di pagamento e di tutta un’altra serie di assetti organizzativi che possiamo a buona ragione definire il setting, la cornice organizzativa del nostro lavoro.
Riguardo alle attività lavorative, all’inizio abbiamo avuto la fortuna di poterne proporre diverse per avere più chance da sfruttare. Nel tempo abbiamo potuto verificare che quello che dice Elliott Jaques quando sostiene che: “attraverso il lavoro si esprime in maniera simbolica il mondo interno dell’individuo attraverso meccanismi di identificazione proiettiva” è del tutto condivisibile. Infatti, ci siamo accorti che le varie attività lavorative “funzionano” in maniera particolare quando riescono ad accordarsi al lavoro interno che in quel momento il soggetto sta effettuando.
Per esempio le fasi iniziali di una riabilitazione, in cui il lavoro interno è spesso caratterizzato da una sorta di ripulitura riparativa innescata dal senso di colpa, tipica, per esempio, delle fasi post depressive, si giovano di lavori quali taglio dell’erba, manutenzione e pulizie di interni, mentre il lavoro della ristorazione, tra l’altro fortemente ansiogeno, è più adatto a coloro che hanno già raggiunto quelle spinte di gratitudine tipiche di processi riparativi interni già maturi. Le attività di portineria, caratterizzate da lunghe ore di attesa, sono più adatte a soggetti con tratti paranoici e che vivono volentieri in ambiti riparati e un po’ solitari.
Allo stato attuale le attività che abbiamo a disposizione per rispettare il percorso interno che il paziente sta facendo sono un po’ diminuite, ma possiamo sperare che le nostre capacità di comprensione, con l’esperienza migliorate (speriamo!) siano in grado di ovviare almeno in parte .
E’ poi importante che sia ben leggibile il clima organizzativo interno con una leadership chiaramente identificata e che siano presenti una serie di punti di riferimento in sostanziale accordo tra loro.
Il setting così costruito è naturalmente sottoposto ad attacchi e “sfondamenti” di ogni tipo. Ce ne siamo accorti specialmente nei primi anni, quando forse tutte queste cose non erano ancora a punto.
La presenza di elementi di rabbia e aggressività narcisistica è stata alla base di numerosi e ripetuti furti ed atti vandalici commessi contro la cooperativa: Laura, una ragazza tossicodipendente con disturbo di personalità border line, inserita da qualche mese, organizza un furto notturno insieme al suo compagno nei locali della cooperativa che di notte rimane deserta. Non trovando che pochi spiccioli, si accanisce contro i muri e le suppellettili insozzando e rompendo tutto. Al mattino lo sconforto di tutti i soci è molto forte, ed orienta le reazioni, anche dei più motivati, verso un cinismo distruttivo pieno di disperazione che rischia di corrompere tutto il clima interno. Oppure Claudio, detenuto in semilibertà dal carcere per problemi di piccolo spaccio, che, dopo alcuni mesi passati in buona armonia con l’ambiente cooperativo, si fa riprendere dal demone e ruba un nostro mezzo, dandosi alla fuga. Passati alcuni mesi, recuperato fortunosamente il nostro camioncino, ci scrive chiedendo a malapena scusa, ma pretendendo l’invio, a nostre spese, di suo materiale lasciato nella fretta della fuga presso la sede della cooperativa.
Adesso tali avvenimenti si sono fatti più rari, forse la struttura organizzata ed una maggiore atmosfera etica che permea l’intera vita della cooperativa fanno da scudo protettivo migliore rispetto ad attacchi rabbiosi e delinquenziali.
Descritto in tal modo l’inizio del nostro lavoro, vorrei nelle prossime puntate parlare di alcuni casi in modo più approfondito parlando, per par condicio, sia di casi che sono andati bene sia di quelli finiti male, sempre conservando un modo di vedere le cose da uno strizza cervelli prestato alla cooperazione sociale.