di Roberto Cresti
L’appellativo “Val di Montone” è senz’altro il più antico ma certo non l’unico ad aver indicato nei secoli la vallata compresa tra via del Sole e via di Fontanella, anche se, ad onor del vero, le altre denominazioni sono piuttosto recenti e rintracciabili più nel parlato popolare che non in documenti d’archivio. Il riferimento, ovviamente, è ai nomi “valle di Porta Giustizia”, con cui questo spazio veniva prevalentemente denominato fino a qualche anno fa, e “Orto de’ Pecci”, che si è definitivamente imposto da quando buona parte dell’area è gestita dalla Cooperativa “La Proposta”. Inoltre va ricordato che nel breve periodo durante il quale la valle fu urbanizzata, il popoloso quartiere fu chiamato “Borgo di Santa Maria”, ma questa è un’altra storia, della quale sin d’ora ci impegniamo a narrare le vicende in qualche prossimo numero.
Il primo dei due nomi deriva dalla strada che da piazza del Mercato scende giù nella valle, arrivando fino alle mura urbane, denominata via di Porta Giustizia, appellativo intrinsecamente legato all’attigua via dei Malcontenti. Tutto ha inizio, infatti, intorno al 1330 quando le prigioni del Comune, fino a quel momento alloggiate nella parte di Palazzo Alessi adiacente al chiasso del Bargello, vennero trasferite in un edificio costruito appositamente lungo via Salicotto, oggi sede di uffici comunali e, all’ultimo piano, del Teatro dei Rinnovati. A quei tempi alcuni reati particolarmente gravi venivano puniti con la pena capitale, consistente quasi sempre nell’impiccagione, anche se non si deve credere che questa fosse comminata spesso dai tribunali senesi: di solito spettava nei casi di omicidio, ma non di un forestiero, per alcune tipologie di tradimento, per incendio doloso, nel qual caso, però, il colpevole era condannato al rogo e non al patibolo, e per alcuni tipi di contraffazione, reato, quest’ultimo, giudicato assai severamente tanto che l’effige dei falsari era ritratta sulle pareti del Palazzo Comunale in segno di monito per chiunque avesse tentato di fare altrettanto. Quanto fosse radicata questa usanza lo prova il fatto che ancora ai tempi del letterato e storico Giovanni Antonio Pecci, ossia intorno alla metà del Settecento, le pareti esterne del Palazzo Pubblico, lungo Salicotto, erano interamente dipinte con immagini di criminali e traditori sotto la mannaia o la scure del boia, impiccati o a capo rivolto in giù, con tanto di nome del malfattore e indicazione del crimine commesso. Il patibolo dove veniva effettuata l’impiccagione, però, non si ubicava in città: il Costituto del 1309-10 ordinava che le forche fossero montate in quattro luoghi diversi disseminati nel territorio della Repubblica, e in particolare, se il reato era stato perpetrato in città, l’esecuzione avveniva nel poggio di Santo Stefano a Pecorile, sito nei pressi della Coroncina, dove nel 1298 il Comune aveva acquistato un terreno da tal Guccio di Maffeo per la somma di 25 lire. Ebbene, il cammino che i condannati a morte dovevano compiere per giungere al patibolo, una volta usciti dalle nuove carceri, ha lasciato una traccia indelebile nella toponomastica urbana, oltre che nel luogo di destinazione, certo non casualmente detto “La Coroncina”: il primo tratto di strada che percorrevano, infatti, fu chiamato “dei malcontenti”, termine che rispecchia in modo eloquente lo stato d’animo di questi sventurati, mentre il secondo ricorda il nome della porta realizzata nelle mura urbane del Trecento, detta per l’appunto Porta Giustizia perché, come annota Agnolo di Tura del Grasso nella sua “Cronaca senese”, “oggi si chiama la porta a la Justizia, e sta serata, che non serve ad altro se non a far iustitia”. Il cronista, dunque, offre una notizia davvero curiosa, ossia che già ai suoi tempi, pochi anni dopo la costruzione della porta, questa era quasi sempre chiusa e veniva aperta solo per far transitare i condannati a morte diretti al poggio di Pecorile. Luogo nel quale, per la verità, le forche non dovettero rimanere a lungo, visto che già nella prima metà del XVII secolo le impiccagioni erano eseguite nel Prato di Camollia (odierna Piazza Amendola), da dove furono spostate prima fuori Porta Fontebranda e poi all’esterno di Porta San Marco, sito in cui si tenevano ancora nel 1786, quando il granduca di Toscana Pietro Leopoldo abolì la pena di morte. Nonostante ciò, la strada che da piazza del Mercato si inoltra nella Val di Montone ha mantenuto nei secoli l’antico nome di via di Porta Giustizia, estendendolo a tutta la vallata, tanto da trovarla così denominata già nel più antico stradario di Siena redatto nel 1789.
Oggi, però, la valle è chiamata comunemente “Orto de’Pecci”, nome che fino a poco tempo fa si riteneva relativamente recente; la sua prima citazione, infatti, risale ai primi del Settecento, quando Girolamo Gigli lo usa per identificare una parte del fondovalle. In realtà questa denominazione affonda le proprie radici almeno due secoli prima: in un libro di contabilità dello spedale di Santa Maria della Scala, conservato presso l’Archivio di Stato di Siena, è spuntata fuori una registrazione risalente al 20 agosto 1547, nella quale compare un tal Girolamo di Piero, di mestiere ortolano, “abitante al Orto de Pecci al Merchato Vecchio”. Il fatto che nel Cinquecento parte di questa area venga qualificata come “orto” non sorprende affatto: dopo l’abbandono del borgo che qui era sorto nella prima metà del XIV secolo, infatti, il Comune stesso aveva stimato più utile ridurre ciò che ne restava “ad campos”, di fatto decretando il futuro della vallata, destinata per lo più a terreni coltivati e ad orti. Impossibile stabilire, invece, un qualche legame tra questo appezzamento di terra e la famiglia dei Pecci, appartenente alla nobiltà cittadina dell’epoca, la cui residenza signorile era nient’altro che il Palazzo del Capitano, acquistato da Tommaso Pecci poco dopo la metà del Quattrocento per trasformarlo in una splendida abitazione magnatizia in stile rinascimentale. Non possiamo escludere, però, che la famiglia avesse altre proprietà, anzi è piuttosto verosimile, e tra queste può darsi che ci fosse un lotto di terra nella Val di Montone, anche se per ora nessun documento lo conferma.