di Andrea Friscelli
E’ noto che l’Australia è sorta come un’immensa colonia penale. Laggiù, infatti, gli Inglesi “esportavano”, dopo un durissimo viaggio per mare (durava dai cinque ai sei mesi), i loro prigionieri. Li mandavano letteralmente all’altro mondo, un po’ come se oggi spedissimo i detenuti sulla luna. Per questo anche ora si ritrovano in quelle regioni lontane i ricordi di quella che qualcuno ha definito la più grande deportazione mai avvenuta di una “classe criminale”. Il sistema inglese non prevedeva la redenzione, ubbidiva solo ad una logica espulsiva e, quando in Inghilterra la costruzione di nuove carceri non fu più proponibile, cominciò (nel 1788) questa sorta di pulizia etnica. I malcapitati che sopravvivevano al viaggio trovavano ad accoglierli stabilimenti penali dal regime durissimo, in luoghi impervi, spesso circondati dal mare e nei quali neanche la speranza di fuga poteva sollevarli. Alcuni dei più noti penitenziari (Macquarie Harbour, p. es.) erano situati in Tasmania, isola a sud del continente australe.
L’arrivo di sir George Arthur, governatore della Tasmania dal 1824 al 1836, portò una ventata di novità nel management penale di quel paese. Arthur era un fanatico religioso metodista e pensava di servire Dio ed il Re attraverso un metodo che lui stesso definiva di “rigore illuminato”. Da lui prese il nome nel 1830 uno dei più noti carceri dell’isola che nel corso del tempo è poi diventato un polo turistico d’interesse mondiale, che ho avuto la fortuna di visitare qualche anno fa.
In questo luogo, in una splendida posizione sul mare, è oggi possibile visitare i vecchi padiglioni penali e comprendere meglio il metodo che era utilizzato per la rieducazione dei “convicts”. Il governatore Arthur, animato dagli ideali illumistici, mise in atto un trattamento più umano per i prigionieri. Cercava, tra le altre cose, di insegnare loro un mestiere con l’idea di restituire alla società individui in grado di tornare in libertà. Esisteva poi una parte dedicata ai soggetti ingestibili, aggressivi o che si erano macchiati durante la detenzione di ulteriori gravi reati, che si chiamava la “separate prison”.
In questa sezione si sperimentava un metodo, il cosiddetto “psychological punishment”, mirante a recuperare anche quei soggetti. Tutto si basava sul concetto che il male, evidentemente presente nella mente dei criminali, potesse essere estirpato modificando, ma, per dire meglio, annullando la loro personalità. Il metodo era scientifico e prescriveva che, arrivato in quella sezione, il soggetto fosse privato del suo nome, della sua immagine, della sua voce, insomma quasi di ogni riferimento identitario. I prigionieri erano chiamati solo con il numero che li identificava, nei luoghi di vita comune avevano sempre in testa un cappuccio che impediva di vedersi tra loro, non esistevano specchi ed erano attentamente evitati tutti i possibili modi di osservarsi o di vedere altri. Inoltre vigeva il divieto di parlare e gran parte della giornata nella “separate prison” passava in solitudine. I detenuti, per assistere alle funzioni religiose, a cui erano obbligati, erano portati in una chiesa in cui, attraverso un complicato meccanismo di paratie di legno, ognuno era collocato in una sorta di cubicolo da cui poteva vedere solo l’altare. Si pensava che così la personalità “cattiva” del soggetto potesse essere estirpata, come un dente guasto, lasciando invece spazio alla riabilitazione guidata dai principi religiosi. Non ci accontentava più di controllare i prigionieri, ma si provava a “curare” il male che era in loro, guidati da un’ingenua e terribile fiducia nella ragione. Freud, la scoperta dell’inconscio e la consapevolezza che il nostro comportamento presenta spesso un lato oscuro non coercibile con la fredda razionalità, erano ancora troppo lontani.
Così quella che era nata come una pratica d’avanguardia, ha finito poi per diventare il prototipo di quel metodo carcerario noto come “lavaggio del cervello”. La metafora del “brain-washing”, cattiva traduzione del cinese “hsi nao” (purificare la mente), è stata impiegata per la prima volta agli inizi degli anni ’50 da E. Hunter Jr., corrispondente da Hong Kong per un quotidiano di Miami, per indicare appunto il sistema di “persuasione” in uso nei campi cinesi o coreani per i prigionieri non cooperanti. Il lavaggio del cervello dosa opportunamente convincimento e coercizione: impiega la coercizione per suscitare colpa e vergogna in modo tale che queste determinino una pena interiore, impiega il convincimento per stimolare cattiva coscienza, così potente da divenire a sua volta una forma di auto coercizione. Lo scopo è quello, di nuovo, di estirpare il modo di pensare, ma si potrebbe dire, il modo di essere del soggetto, portandolo ad una diversa concezione della realtà e della sua stessa identità.
Per ironia la fase più dignitosa dei prigionieri di Port Arthur era quella della morte. Venivano infatti trasportati al cimitero collocato su una piccola isola (Isle of the Dead) dove le lapidi non ricordano solo i loro nomi, ma raccontano anche concise biografie, poesie ed epigrafi che riferiscono lo strazio di vite vissute agli antipodi dei luoghi natii, in genere Inghilterra o Irlanda.
Dopo circa 50 anni Port Arthur, che come tutte le istituzioni totali si basava sul lavoro dei prigionieri, quando cessarono le deportazioni dall’Inghilterra e dopo aver tentato di riciclarsi prima come ospizio per anziani e poi come “Lunatic Asylum”, nel 1877 chiuse i battenti.
Dopo aver tentato perfino di cambiare nome (per 50 anni si chiamò Carnarvon) per cancellarne la drammatica memoria, qualcuno, nei primi decenni del ‘900, pensò che proprio il perpetuare quei ricordi potesse diventare una miniera d’oro. Ed aveva ragione, infatti ora Port Arthur è un importante “historic site” e riceve migliaia di turisti da tutto il mondo. All’interno si possono visitare le celle, la chiesa ed i vari padiglioni, attori professionisti mettono in scena alcune delle storie più tragiche dei prigionieri, si può visitare l’isola dei Morti ed in generale apprezzare la testimonianza muta di tanti terribili drammi umani inflitti dagli Inglesi per mezzo del più feroce sistema carcerario del XIX secolo.
A riprova poi che il “genius loci” è evidentemente intriso di una sua insopprimibile tragicità, Port Arthur è tornato alla ribalta delle cronache mondiali quando il 28 aprile 1996 un giovane uomo di Hobart , Martin Bryant, ha ucciso, senza alcuna motivazione, all’interno del sito storico 35 persone, ferendone 37, con colpi di varie armi da fuoco. Dopo quest’evento, uno dei più terribili “mass murder” che si ricordino, il governo Australiano ha modificato la legge sul porto d’armi, varando in materia la legislazione più restrittiva del mondo.
A conclusione mi chiedo se questa esperienza, sia pure a livello diverso e ad una misura consona alla nostra dimensione regionale, non possa essere tenuta in considerazione come modello per salvare il Connolly, il reparto del vecchio manicomio dedicato ai malati più gravi, e per farlo diventare una risorsa per il nostro turismo