di Duccio Balestracci
I matti? Teneteveli ben serrati in casa, o, in alternativa, se non potete farlo e non vi fidate, affidateli alle carceri: pagatene il sostentamento e ci penseranno i carcerieri a tenerli ben legati o comunque segregati dal resto del mondo. Questa era la terapia psichiatrica in uso fra il Medioevo e l’Età Moderna. E per chi partecipava di questa cultura non era poco sorprendente notare che, da qualche parte, i pazzi li tenevano, sì, segregati, ma in ospedali e non dentro le carceri.
Benjamin da Tudela (un ebreo spagnolo che viaggia in Medio Oriente nel XII secolo) resta ammirato quando vede il ‘manicomio estivo’ della Bagdad del XII secolo, dove, per far sopportare ai pazzi il feroce caldo della stagione, vengono tenuti in un apposito edificio legati in ceppi di ferro. Questo trattamento, racconta l’ebreo, è riservato anche a quelli che danno fuori di testa per il gran calore ma che poi, ai primi freschi, rinsaviscono. Il mantenimento degli alienati non è a carico delle famiglie, ma del califfo. Le terapie attuate nel manicomio sono semplici, ma, al tempo stesso, impensabilmente moderne poiché prevedono l’accertamento dello stato di salute mentale tramite il colloquio (oggi la chiameremmo analisi) con l’alienato: “di mese in mese funzionari del califfo interrogano i malati per accertarsi che siano rinsaviti” e quando la diagnosi è positiva, vengono lasciati liberi, dopo che è stata loro assegnata una piccola somma di denaro, come elemosina per consentire il ‘reinserimento’ (diremmo con termini attuali) nella società e per far fronte alle prime necessità dopo il ritorno alla vita normale.
Leone Africano (geografo magrebino) descrive, all’inizio del ‘500, il manicomio di Fez, dove i matti sono tenuti segregati, incatenati nelle camere, e guardati a vista da un guardiano che dà loro da mangiare e, soprattutto, li controlla tenendoli a bada con un bastone. Quando gli alienati vedono un forestiero lo chiamano e gli chiedono aiuto, sostenendo che sono guariti e che vengono trattenuti abusivamente; qualcuno ci crede, spiega lo scrittore, e incautamente si avvicina. E mal gliene incoglie, perché i pazzi lo afferrano per il vestito, lo immobilizzano e gli imbrattano il volto di sterco.
Se Francesco Guicciardini, nel 1512, resta ammirato dall’ospedale di Barcellona, “grande dove vi sono moltissimi infermi in belle e ornate camere, e per quello che potei vedere mi parvono bene tenuti [e dove] nel medesimo spedale si nutriscono e’ bambini che si espongono; ed eziandio vi stanno e’ matti”, il manicomio di Valencia richiama l’attenzione di più di un viaggiatore. Ne parlano, infatti, tanto il tedesco Geronimo Münzer nel 1494, quanto un anonimo mercante lombardo intorno al 1517. Ci sono rinchiusi – scrive il primo – pazzi, scemi, furiosi e “malinconici” di entrambi i sessi. Il lombardo è più preciso: non si tratta di un edificio esclusivamente adibito a manicomio, spiega, ma di un ospedale (nemmeno particolarmente bello) con 4 sale, ognuna di circa 40 letti, e “caduna salla ha le infirmitate separatte, fra quagli gliene he una de matti”.
Non sarà stato migliore il manicomio visto dallo stesso viaggiatore a Londra, ma, in questo caso si tratta effettivamente di una struttura esclusivamente adibita a ospitare gli alienati mentali, ciascuno dei quali ha una sua cella e non vive in promiscuità con gli altri. “In Londres – scrive infatti – in uno borgho apresso ad una porta a cantto ad una chiesietta appellata Bethelem li he uno hospitale de matti ove sono molte camere et ciaschuna ha uno matto entrovi, et glien’è de ogni sorte”. E conclude: “he cosa paurosa ad vedere”. Pensando a quel che sarebbe venuto dopo, non si fa fatica a credergli.