di Andrea Friscelli
Ricordo i primi giorni in cui arrivammo all’orto de’ Pecci, nella primavera dell’84, le sensazioni furono di povertà, freddo ed abbandono che ci impedirono quasi di cogliere la bellezza del luogo. Non c’era un posto dove stare, solo campi sterminati e qualche vecchio malato dell’OP che non ci prendeva tanto sul serio. Avevamo a disposizione un edificio (quello che adesso ospita il ristorante) che era una spelonca nera di fuliggine per il fuoco che veniva acceso per terra, l’altro casolare (dove adesso ci sono gli uffici) non lo prendemmo neanche in considerazione.
Poi ricordo i volti di alcuni infermieri che per primi si fecero carico di mandare avanti il lavoro: l’indimenticabile Massimo, Giuliano, Valerio, il Savini, il povero Capitani. Tutti amici che in realtà, senza preoccuparsi troppo del mansionario, cominciarono a frequentare quel posto in maniera continuativa, facendosi carico di un doppio lavoro: quello dell’orto e quello, più consono al loro ruolo, che consisteva nello stare con i nostri malati, coinvolti fin dall’inizio nella vicenda. Sono stati anni duri in cui il rischio di una morte prematura della cooperativa era continuamente dietro l’angolo. Furono anni di chiusura al nostro interno, nessuno che sapeva dove fossimo o chi fossimo. C’era poco sostegno anche all’interno dello stesso Servizio: molti pensavano male dell’intera iniziativa, giudicando una perdita di tempo tutto il nostro darsi da fare. Nonostante questo, però, gli infermieri del Servizio non coinvolti invidiavano un po’ quelli che si erano resi disponibili, accusandoli di venire all’orto a “prendere il sole” mentre loro erano in ospedale.
In quella fase ci venne un sostegno importante dalla Amministrazione Provinciale (nella cui compagine era presente come assessore Fausto Mariotti, medico sensibile ai temi sociali) che per un paio d’anni attraverso un contributo di 20 milioni ci permise di cominciare le prime ristrutturazioni ed i primi acquisti.
Il nostro lavoro era ridotto alla produzione di verdure che la cucina dell’ex Ospedale Psichiatrico, funzionante ormai per l’intera Usl, situata a pochi passi da noi, assorbiva quasi per intero. Se da un lato la nostra produzione non era certo di prima qualità, dall’altra la USL ci imponeva dei ribassi nell’acquisto che rasentavano anche il 30 – 40 %. Si era stabilito così una sorta di circolo vizioso per cui era inutile impegnarsi per migliorare la produzione tanto comunque veniva valutata poco. In quel periodo non c’erano dipendenti, tutto il lavoro veniva svolto dagli inseriti, ma soprattutto dagli infermieri, il cui fondamentale ruolo veniva un po’ sminuito dal fatto che ruotavano spesso. Nel Servizio infatti, per scongiurare le invidie di cui prima parlavo, aveva “vinto” la regola che tutti dovessero turnare anche in quella strana sede esterna. Questo però faceva perdere in continuità, introducendo nel “giro” a volte persone poco motivate e poco disposte a spendersi in quel ruolo che non era propriamente consono. I primi bilanci vennero fatti soprattutto contando su due voci di entrata: la vendita di verdure e la quota che la Usl riconosceva alla cooperativa per gli inserimenti socioterapeutici. La convenzione, infatti, prevedeva fino ad un massimo di 15 inserimenti, in genere quasi sempre tutti coperti, e riconosceva un contributo alle persone inserite come compenso del lavoro fatto e, come dicevo prima, una quota minore alla cooperativa che li accoglieva e li “formava” al mestiere.
Il significato più importante di quella fase fu probabilmente il radicamento all’orto de Pecci. Infatti, le prime ristrutturazioni, l’aver reso in qualche modo fruibile quel luogo per una sia pur minima attività, ci permisero di assaporare sempre di più quell’aria di un luogo magico, sospeso nel tempo, antico e sconosciuto ai più, mettendoci quasi nella posizione dell’archeologo che per primo viene a contatto con un passato dimenticato. Questo processo fu rinforzato dallo scoprire le potenzialità del luogo anche dal punto di vista della possibilità di accogliere turisti. La prima idea ci venne da Flavio Mocenni, allora amministratore della Usl, che ci propose di accogliere il turismo scolastico, a quel tempo oggetto degli strali critici del sindaco Mazzoli della Stella. Cominciò così in maniera del tutto artigianale, molto sporadica e un po’ clandestina l’attività che poi sarebbe invece diventata uno dei nostri settori più importanti.
La modifica del logo segnala quindi questo cambiamento: non più immagini velleitarie e teoriche, ma un’immagine precisa, un angolo dell’Orto de’ Pecci con la casina, il “cipressino” e la Torre sullo sfondo. Fu disegnato da Grazia Pippi, moglie di Giovanni Batini, medico, amico e collega della Psichiatria che dedicava una parte del suo tempo alla cooperativa.
Si possono notare anche altre cose: la dizione Cooperativa di lavoro in attesa che arrivasse, qualche anno dopo, la legge 381 e stabilisse la nomenclatura che si è poi affermata, ovvero: cooperativa sociale. Guardate anche la sede legale ancora situata in Piazza del Duomo 2, ossia presso la sede del Servizio di Psichiatria, ed i numeri di telefono. Prima del nostro numero ormai storico e di facile memoria (il 222201) viene un numero che faceva parte della rete dell’Ospedale Santa Maria della Scala.
Così poteva capitare che qualcuno che cercava il “centro di lavoro”, citato nel logo, si sentisse invece rispondere dal Servizio di Psichiatria, dando probabilmente la straniante impressione di aver sbagliato numero e suggerendo, con ogni probabilità, che la cosa migliore da fare era di lasciar perdere.