di Roberto Cresti
In origine le carceri senesi erano mantenute dal Comune in edifici privati presi in affitto, spesso torri, come successe nel 1260 per i numerosi prigionieri di guerra catturati dopo la battaglia di Montaperti. Qui venivano detenuti soltanto i cittadini semplici, perché i magnati restavano agli arresti domiciliari o venivano rinchiusi in luoghi particolari, individuati volta per volta dal podestà. Verso la fine del Duecento si cominciò ad utilizzare come prigione anche il Palazzo Alessi, oggi meglio noto come la Rocca d’Elci, all’epoca di proprietà di Musciatto Franzesi, situato accanto al chiasso del Bargello, che a partire dal 1297 fu affittato dal Comune esclusivamente per tale destinazione. Proprio in quegli anni, peraltro, venne emanato il nuovo ordinamento carcerario, con il quale fu deciso di costituire tre distinte sezioni: quella che avrebbe accolto i condannati sia per crimini di minor entità sia per i reati gravi (“pro enormibus malefitiis”, ossia omicidio, tradimento, stupro, incendio doloso, rapimento, spergiuro, tortura, ferimento con perdita di sangue, etc.), tenuti in stato di isolamento; quella per i debitori e le donne, opportunamente separati; infine quella dove venivano reclusi coloro che erano sotto processo in attesa dell’eventuale pena. Un trattamento di favore, invece, era ancora riservato ai nobili e ai “boni homines”, rinchiusi in luoghi scelti a discrezione del podestà, che potevano essere immediatamente scarcerati se in grado di fornire garanzie di buona condotta; privilegio, peraltro, di cui continuarono a godere anche dopo l’edificazione della nuova prigione. Tuttavia le condizioni in cui vivevano i detenuti erano disumane, tanto da spingere alcuni cittadini, forse appartenenti a confraternite laiche vicine agli ordini mendicanti, ad avanzare una petizione al governo dei Nove affinché si facesse carico del problema. Nell’istanza le carceri di Palazzo Alessi vengono definite “mortifere”, aggettivo quanto mai corretto, visto che negli ultimi due anni vi erano morti più di sessanta reclusi.
Così il 17 febbraio 1327 il Consiglio generale approvò il progetto di “una prigione nuova e grande” nella contrada di Salicotto, dietro l’ala del Podestà di Palazzo Pubblico allora in fase di costruzione. Per edificarla, tra l’aprile e il giugno di quell’anno vennero acquistate ben nove case, per un costo di 7.350 lire, e rasa al suolo la chiesa di San Luca in Palchetto; le opere dovettero proseguire fino al 1331, ma come narrano le cronache, i primi galeotti vi furono spostati già la notte del 28 luglio 1330. Così, per esempio, scrive Agnolo di Tura del Grasso: i “Sanesi tenevano la prigione sotto il palazo degli Alessi e che ogi si chiama de’ Ceretani, la qual prigione è verso il Canpo, e stavi dentro i prigioni, ed eravene tanti, che non vi poteano capire. Unde i Sanesi solecitati di fare la nuova prigione di Malcucinato, ed era già fatta in fino a le volte, e per questo furo cavati i detti prigioni di detto palazo e messi in detta prigione nuova di Malcucinato di notte a dì 28 di luglio”.
Nel Medioevo per alcune tipologie di reato la legislazione penale prevedeva la condanna a morte, che a Siena veniva eseguita in luoghi diversi, al contrario di quanto ritenuto comunemente; su questo, però, torneremo con un prossimo articolo. In particolare, almeno dalla fine del XIII secolo, e fino al Quattrocento inoltrato, chi era punito con l’impiccagione veniva di norma trasportato qualche miglio a sud della città, tra la Coroncina e Colle Malamerenda, nei pressi della chiesa di Santo Stefano a Pecorile, dove il 23 aprile 1298 il Comune aveva acquistato un terreno da Guccio di Maffeo al prezzo di 25 lire per innalzarvi i patiboli. Un sito ancora oggi segnato dall’inequivocabile toponimo di “Poggio delle Forche”. Un periodo così lungo da aver lasciato un’impronta indelebile nei nomi di strade e luoghi percorsi dai condannati a morte, dei quali, quindi, è possibile ricostruire l’intero cammino effettuato dal nuovo edificio delle carceri fino ad arrivare ai patiboli della Coroncina.
Ancora dentro le mura cittadine si conservano due denominazioni estremamente significative: appena uscito dalla prigione lo sventurato imboccava via dei Malcontenti, termine che rispecchia eloquentemente lo stato d’animo del momento, per poi inoltrarsi nella Valdimontone e percorrere via di porta Giustizia, come fu chiamato, proprio per questa ragione, l’accesso al borgo nuovo di Santa Maria edificato negli anni venti del XIV secolo. Questa antica odonomastica senese trova una precisa corrispondenza in quella fiorentina. Anche nella città dell’Arno, infatti, esiste ancora oggi via dei Malcontenti, che da via delle Casine conduce a piazza Piave, il cui nome deriva dai condannati a morte che dalle prigioni del Bargello, prima, e dal carcere delle Stinche, poi, venivano condotti sul luogo delle esecuzioni capitali, posto poco fuori l’antica porta della Giustizia, presso la Torre della Zecca. Tornando a Siena, oltre le mura trecentesche la strada proseguiva verso meridione e giungeva alla Coroncina, altro nome forse legato alle litanie del Santo Rosario recitate prima del supplizio. E sempre in questa zona ci imbattiamo in un altro toponimo assai allusivo, cioè l’edificio ancora oggi denominato “Albergaccio”, la cui struttura fortificata in laterizio è ancora percepibile, nonostante i restauri dell’ultimo secolo. Il nome non lascia adito a dubbi: era in questo luogo che trascorrevano le ultime ore i condannati a morte prima di salire sul patibolo, situato poco più a sud, sulla sommità della collina che proprio per la sua tetra presenza assunse la denominazione “Poggio delle Forche”.
Oggi di queste ultime non resta quasi più nulla. Quasi, perché in realtà una parte dei patiboli della Coroncina è conservata a Perugia. Scopriremo di cosa stiamo parlando nella prossima puntata.