di Roberto Cresti
Come accennato nel precedente articolo, il “Tempio della Giustizia” presso l’omonima porta, la cui realizzazione aveva suscitato l’apprezzamento di san Bernardino, visto che le orrende e macabre decapitazioni si sarebbero potute eseguire quantomeno in un luogo chiuso, appartato e con minore spargimento di sangue, non dovette essere utilizzato con la frequenza auspicata. Il cronista Tommaso Fecini, ad esempio, nel periodo fra il 1432 e il 1450 annota soltanto cinque condanne effettuate al “tenpio”, anche se va detto che in diversi casi non menziona il luogo dell’esecuzione. Una di queste fu particolarmente feroce e infamante. Il 24 gennaio 1450 “fu strascinato al tenpio Giovanni di Grazia, spagniuolo, e fuli tagliata la testa e posta in sur una lancia e tutto il dì vi stè”. Il giorno seguente poi, in segno di ulteriore vituperio, il corpo acefalo “fu istrascinato a Pecorile e lì fu inpiccato per li piei, e questo fu che tradì il suo padrone per denari, che fu morto a tavola in casa di Piero da Scarlino”; l’impiccagione per i piedi, infatti, costituiva un’ulteriore punizione per il colpevole, che era degradato al ruolo animale, venendo appeso come le bestie macellate. Anche un’altra fonte, comunque, sembra confermare che ben poche delle condanne capitali decretate nella seconda metà del XV secolo furono eseguite all’interno del Tempio. Si tratta di un “libricciuolo” dove i confratelli di San Giovanni Battista della Morte registrarono tutti i lasciti donati alla compagnia da coloro che vennero giustiziati tra il 1476 e il 1491. Ebbene dei 127 condannati presenti nell’elenco (per una media di otto all’anno), soltanto due vennero decapitati al “Tempio della Giustizia”: “Antonio di Mattio, del Perogia, chiamato el Mognie, da Siena” il 16 febbraio 1485, e “Mariano bigiolaio” il 18 dicembre 1487. E mentre il Tempio veniva utilizzato così di rado, ancora un gran “successo” riscuoteva il Mercato Vecchio, nonostante le proibizioni trecentesche, visto che nel medesimo arco di tempo vi furono giustiziate una decina di persone, sia mediante impiccagione sia con il taglio della testa. Assai interessante, tra di esse, l’esecuzione capitale avvenuta il 20 aprile 1479, quando “fu impiccato uno povaro giovano, a ore 4 di notte, era da Piagenza; il quale fecie impiccare el cavaliere Orsino, in sul Mercato vecchio, e noi della Compagnia il setteramo a Santo Luca”. Dunque alla fine del XV secolo la chiesa di San Luca, di cui abbiamo parlato in due precedenti articoli, era ancora il luogo consacrato dove i confratelli di San Giovanni Battista seppellivano le salme di coloro che venivano giustiziati tra piazza del Mercato e l’Orto dei Pecci e probabilmente anche di quelli decapitati all’interno del Tempio.
Come visto, nel Quattrocento il Mercato Vecchio fu teatro anche di diverse impiccagioni, segno che i patiboli di Pecorile stavano cadendo in disuso. E, in effetti, fu dalla fine di quel secolo che le forche vennero innalzate anche al Prato di Camollia, in prossimità dell’Antiporto, dove rimasero fino al 1641. Il 22 novembre di quell’anno, però, il governatore di Siena Mattias de’ Medici emanò un editto con il quale decretò il loro spostamento fuori porta Fontebranda, “in quel greppo sopra alla gavina grande, che sopra c’è il poderino di casa Rubini”, allora situato in prossimità dell’attuale parcheggio pubblico “Santa Caterina”. Amando frequentare il Prato con dame e cavalieri, infatti, lo “spettacolo” dei condannati che pendevano dalle forche doveva risultare particolarmente urticante per il principe. Il trasloco, però, non provocò salti di gioia neppure tra gli abitanti della zona di Fontebranda e, soprattutto, suscitò la comprensibile opposizione di Francesca Rubini, detta “La Spagna”, proprietaria del “Poderino”. Secondo il racconto di Girolamo Macchi, la signora, vantandosi di essere “tutta amica del principe Mattias”, riuscì a strappargli un colloquio, nel corso del quale fece presente quanto la zona fosse visceralmente legata alla figura di santa Caterina, che era solita recarsi a cogliere gigli sulla vicina collinetta, per questo denominata “dei Gigli”. Inoltre quell’area era destinata da secoli al macello di “cavalli, somari, bovi e in quel greppo destinato agli impiccati proprio i maiali, pertanto non parevami dovere si havesse ancora a macellar cristiani”, concluse donna Rubini, le cui argomentazioni furono tanto persuasive da convincere il governatore a rimangiarsi la decisione assunta. Per usare le parole del Macchi, “piacque a Sua Altezza il pensiero di questa donna”, e così i patiboli furono nuovamente rimossi e innalzati fuori porta San Marco, in cima alla strada del Giuggiolo.
Qui le forche rimasero fino alla “Riforma della Legislazione Criminale Toscana”, varata il 30 novembre 1786 dal granduca Pietro Leopoldo, con cui nel territorio dello Stato si abolirono la tortura e la pena capitale. Quest’ultima, tra l’altro, veniva praticata ancora con una certa frequenza, come documenta il “Giornale Sanese” (1715-1794) compilato da Giovanni Antonio Pecci e dal figlio Pietro; nel periodo compreso tra il 1718 e il 1759 le impiccagioni furono diciotto. Non si pensi, comunque, che l’area tra piazza del Mercato e l’Orto dei Pecci fosse completamente abbandonata. Sempre dal “Giornale Sanese” si viene a sapere che nel corso del Settecento diversi soldati “alamanni” e “ungari” di stanza in città, macchiatisi di reati particolarmente gravi, quali la diserzione o il tradimento, vennero “moschettati” (fucilati) proprio al Mercato vecchio. Tutto ebbe momentaneamente fine la mattina del 14 dicembre 1786, quando anche a Siena fu affisso “il nuovo codice criminale pieno di vera umanità”, per usare le parole di Pietro Pecci. In conseguenza di ciò, l’11 gennaio 1787 vennero smantellate le forche di San Marco.
L’abolizione totale della pena di morte, tuttavia, ebbe vita piuttosto breve e già nel 1790, sull’onda della Rivoluzione Francese, lo stesso Pietro Leopoldo la ripristinò per i rei di sollevazioni politiche. Nel 1795, poi, il figlio Ferdinando III, suo successore sul trono toscano, la reintrodusse anche per i delitti di lesa maestà e contro la religione, nonché per gli omicidi premeditati. Naturalmente il quadro peggiorò con l’avvento del regime francese, e nel 1809 anche a Siena tornarono il boia e la ghigliottina, suscitando le rimostranze di buona parte della popolazione, ormai abituata alle riforme leopoldine e poco convinta della rigidità con cui veniva amministrata la giustizia dal nuovo governo cittadino. In un primo momento ad alzare la voce furono soprattutto le popolane di Salicotto, perché ai due “esecutori di giustizia”, il boia e un suo aiutante, venuti direttamente da Parigi, era stata trovata casa proprio lì, all’angolo con Pescheria, da cui chiesero che venissero cacciati. E se già il loro arrivo aveva provocato ampio dissenso, addirittura violenta fu la reazione popolare scatenatasi alla prima esecuzione capitale dopo tanti anni. Ad essere condannato al taglio della testa era un gaglioffo di Pontremoli, reo di aver trucidato un’intera famiglia a scopo di rapina. Il 22 luglio 1810, giorno fissato per la decapitazione, il palco con la ghigliottina era stato montato nel Campo, ma dopo furiose proteste fu spostato in piazza del Mercato, presso la scalinata di Pescheria. Ad assistere al macabro spettacolo c’era tanta gente, già piuttosto irritata, ma a peggiorare la situazione ci pensò il carnefice, che per due volte colpì il malcapitato alle spalle senza recidere il collo, tra il raccapriccio generale, finché al terzo tentativo riuscì a terminare l’opera. Fu la goccia che fece traboccare un vaso già stracolmo: i due transalpini furono assaliti dalla folla e solo grazie alle cariche dei militari posizionati sotto il palco riuscirono a barricarsi in casa, che per loro fortuna era proprio a due passi dal patibolo. Ciò, tuttavia, non li salvò dal carcere in Fortezza, dove vennero subito tradotti assieme a qualche soldato distintosi per l’eccessiva foga mostrata durante la carica. Dopo qualche giorno in gattabuia, il boia e il suo vice furono rispediti in Francia e sostituiti da un altro parigino, Pietro Nicola Kermer, che negli anni seguenti dimostrò maggiore maestria rispetto a quei goffi predecessori.
Il Codice Leopoldino, noto anche come Leopoldina, rientrò in vigore nel 1814, con la fine del regime napoleonico in Toscana, e lo restò fino al 1853, quando il granduca Leopoldo II emanò il nuovo Codice penale toscano. In quest’ultimo testo la pena di morte tornò ad essere applicata; fu definitivamente abolita nel 1859 dal Governo provvisorio toscano.