di Roberto Cresti
Uno degli episodi più significativi della vita spirituale di santa Caterina risale al giugno del 1375 ed è narrato nella Lettera n. 273 che scrisse a Raimondo da Capua, certamente tra le più famose ed intense della sua corposa raccolta epistolare. Caterina aveva appena ricevuto le stimmate a Pisa, quando rientrò a Siena per assistere spiritualmente un giovane condannato a morte che si professava innocente. Nella lettera che inviò al suo confessore, la santa non lo nomina espressamente, e neppure Raimondo menziona il fatto nella Legenda maior. A fornire il nominativo del malcapitato e qualche delucidazione sui motivi della condanna, peraltro non chiarissimi, è invece Tommaso Caffarini, prima nella lunga testimonianza che rese per il cosiddetto “Processo Castellano” (l’inchiesta condotta tra il 1412 e il 1416 dal vicario di Francesco Bembo, vescovo di Castello in Rialto, per dimostrare o confutare l’autenticità delle virtù attribuite a Caterina), e poi nella Legenda Minor, da lui composta fra il 1416 e il 1417 per semplificare il testo di Raimondo. Si trattava del nobile perugino Niccolò di Toldo (come scrive Tommaso, mentre in altre fonti compare la dizione “Tuldo”), il quale, come risulta dai documenti del Concistoro senese, il 4 giugno 1375 era stato catturato dagli uomini del Senatore, interrogato dal Podestà e dai tre Gonfalonieri dei Terzi, e immediatamente condannato alla pena capitale con l’accusa di aver seminato “zizaniam” in città, “mortale e pericolosa per la situazione dell’attuale governo” (“letiferam et perniciosam ad statum presentis regiminis”). Nel “Processo Castellano” Caffarini riferì che “Nicolaus de Perusio” avrebbe pronunciato parole infamanti nei confronti del Senatore allora in carica, Pietro I marchese reggente del Monte Santa Maria, durante alcune sommosse popolari verificatesi in quel periodo, nelle quali si trovò coinvolto perché era stato chiamato a Siena proprio da quest’ultimo per svolgere incarichi non meglio precisati. Una spiegazione che Tommaso ribadì anche nella Legenda minor, seppur meno dettagliatamente (“per alcuna parola che incautamente avea detta che toccava lo Stato”).
Una punizione severissima e senza appello che alimentò lo stato di tensione già esistente tra Siena e Perugia: l’8 giugno Gerardo Dupuy, abate di Marmoutier e vicario generale nei territori papali, quindi di fatto signore anche della città umbra, scrisse al Concistoro per capire i motivi della carcerazione, dichiarandosi certo dell’innocenza di Niccolò. I magistrati senesi, tuttavia, furono irremovibili e risposero a strettissimo giro di posta di avere le prove della sua colpevolezza. Pur non ammettendolo apertamente, erano convinti che il giovane fosse stato chiamato in città per svolgere attività di spionaggio, probabilmente per conto dello stesso abate transalpino, già in odore di aver spalleggiato i Salimbeni nelle rivolte contro Siena del 1374. E il suo intervento epistolare a favore di Niccolò non fece che avvalorare questi gravissimi sospetti. Di fronte a ciò, Dupuy dovette arrendersi, inviando il 13 giugno una seconda missiva in cui ringraziava il Concistoro per i chiarimenti ottenuti, accettando, di fatto, la condanna inflitta a Niccolò, per il quale chiedeva che fosse trattato misericordiosamente, “come fosse un membro della Chiesa”.
Il nobile perugino si chiuse in un silenzio irremovibile, rifiutando ogni tipo di conforto in carcere. Era un “uomo disperato, non volendosi confessare, né udire né frate né prete che li dicesse cosa che appartenesse alla sua salute”, come narra Tommaso nella Legenda Minor, che aggiunge: “alfine fu mandato per questa vergine, la quale con grandissima carità l’andò a visitare in pregione”. Solo grazie all’intervento di Caterina, dunque, Niccolò poté riacquistare la serenità e la forza necessarie ad affrontare una prova così ardua e angosciante, come si evince dalla commovente lettera che la santa indirizzò a Raimondo. Finché, forse il 19 o il 20 giugno di quel 1375, non arrivò il momento del supplizio. Caterina giunse sul posto prima di Niccolò, mantenendo la promessa che gli aveva fatto. Poco dopo arrivò anche il giovane “come uno agnello mansueto”, scrive la santa, che continua: “vedendomi, cominciò a ridere; e volse che io gli facesse il segno della Croce. E ricevuto il segno, dissi io: «Giuso! alle nozze, fratello mio dolce! che tosto sarai alla vita durabile». Posesi giù con grande mansuetudine; e io gli distesi il collo, e chinàmi giù, e rammentàili il sangue dell’Agnello. La bocca sua non diceva se non «Gesù» e «Catarina». E, così dicendo, ricevetti il capo suo nelle mani mie, fermando l’occhio nella divina bontà e dicendo: «Io voglio»”.
Ci domandiamo adesso: dove avvenne la decapitazione di Niccolò di Tuldo? Ovviamente nessuna fonte documentaria ne fa cenno, ma nello scorso articolo abbiamo constatato che già in quel periodo, e fino almeno alla metà del Cinquecento, il luogo dove solitamente venivano eseguite le condanne capitali tramite il taglio della testa era il “Mercato vecchio”, all’imbocco dell’Orto dei Pecci. E una conferma indiretta arriva dal celeberrimo affresco raffigurante proprio La decapitazione di Niccolò di Tuldo, che Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma realizzò nel 1526 per la cappella di santa Caterina nella basilica di San Domenico. Perché se si osserva attentamente lo scorcio urbano in cui viene collocata la scena del supplizio, si può notare che non è immaginario ma rappresenta un luogo concreto, effettivamente esistente a Siena, e guarda caso proprio quello in cui venivano effettuate queste lugubri condanne, ossia l’ingresso della Valdimontone sotto il mercato. Nella collina in alto a sinistra dell’affresco, infatti, il Sodoma effigiò un complesso conventuale nel quale si può agevolmente riconoscere Santa Maria dei Servi, con la facciata della chiesa pressoché identica all’attuale e lo svettante campanile nella forma che lo ha contraddistinto fino al 1926, quando è stato ridotto alla veste odierna. In alto a destra, invece, si scorge la parte retrostante di un altro edificio sacro, adagiato sulla sommità di un poggio, che pur essendo passato attraverso trasformazioni più radicali dei Servi, non esitiamo ad individuare nella chiesa di Sant’Agostino. Sullo sfondo poi, in parte coperta dalla testa mozzata di Niccolò sorretta da un personaggio vestito con un saio bianco (spesso confuso per il boia, ma più correttamente da individuare come un membro della Compagnia della Morte), s’intravede la cima del Monte Amiata, effettivamente visibile da quella prospettiva nelle giornate più terse. Il pittore vercellese dunque, pur non volendo dipingere l’episodio nella sua esattezza storica (per esempio, al fianco del corpo acefalo di Niccolò vi sono personaggi vestiti non in foggia trecentesca ma con abiti della sua epoca, e addirittura dell’età romana), collocò la scena dove effettivamente avvenne, attingendo dalla lettera di Caterina e forse da una tradizione orale che poteva essere ancora viva un secolo e mezzo dopo i fatti, o perlomeno dove si praticavano le decapitazioni ancora a quel tempo, nonostante Siena si fosse ormai dotata del cosiddetto “Tempio della Giustizia”.
Questa, però, è un’altra storia, di cui parleremo nel prossimo appuntamento.