di Andrea Friscelli
In questo pezzo vorrei svolgere alcune brevi riflessioni che sono scaturite da stimoli diversi, la visione di un filmato, la lettura di un libro, alcuni tentativi di approfondimento su temi che non mi appartengono come cultura e formazione, ma che sono stato costretto a cercare. La difficoltà sta proprio forse nel raccordare in maniera intellegibile questi pensieri. Ci provo.Tutto inizia con le impressioni ricevute da una trasmissione che una tv locale ha deciso di dedicare alla nostra minuscola cooperativa sociale che ha una storia di oltre trent’anni alle sue spalle. Nel filmato che consiste in alcune interviste sono però montati spezzoni di un periodo precedente risalente a quasi dieci anni prima. Ne scaturisce quasi automaticamente un confronto tra il presente e quel passato prossimo che fu l’ultimo anno prima della crisi. È un confronto ingeneroso e che, a chi come me era presente allora ed adesso, mette il magone. Intanto alcuni dei protagonisti non ci sono più, alcuni scomparsi naturalmente, altri per aver ripreso brutte strade, altri ancora scomparsi alla cooperativa per aver rinunciato alla strada di recupero intrapresa e scelto invece di tornare su vecchie strade poco utili. Più in generale la vita della cooperativa si è impoverita, intristita, principalmente per le peggiorate condizioni economiche che non garantiscono più un futuro certo.
Del resto questa parabola discendente ha colpito molte realtà simili, alcune in effetti non ci sono più, altre si arrabattano per resistere.
Passo a raccontare il secondo stimolo che mi ha mosso a scrivere.
Ho letto qualche settimana fa un bel libro [*] in cui si racconta la storia di una famiglia di emigrati bavaresi che fanno fortuna negli States. Il racconto abbraccia diverse generazioni di quella famiglia e delinea una sorta di traiettoria della loro storia: prima c’è la fase “buona” del loro radicamento e sviluppo. È impossibile non ammirare l’ingegno, l’intraprendenza, la volontà di impegno di quelle persone. È quella la fase che li conduce ad una certa ricchezza e chi legge è contento del loro successo. Poi comincia uno stadio diverso, quello finanziario, sempre più distaccato dal lavoro vero, dove cala un po’ l’ammirazione iniziale. Le fasi successive sono di sempre maggior difficoltà ad essere comprese, i meccanismi finanziari che entrano in gioco e che permettono ai “tedeschi” di arricchirsi sempre di più diventano complicati, la sensazione che si cominci attraverso questi a sfruttare il lavoro degli altri sempre più forte.
Nella fase cruciale di questa parabola, dove si sta per entrare nella fase finanziaria di secondo o terzo livello uno dei figli, Sigmund, destinato a ricoprire un ruolo importante nell’azienda si mostra, secondo il giudizio della famiglia, un po’ molle, poco convinto del suo ruolo, incline a occuparsi di altro. Ecco allora che scatta una feroce manovra educativa tesa a renderlo come è appropriato essere per ricoprire quel ruolo. La manovra è banale, quasi infantile nella sua semplicità. Qualcuno compila un elenco di massime, tutte molto brevi, un rigo al massimo, che lui tutti i giorni dovrà ripetere almeno tre volte. Sono 120 e rappresentano una sorta di catechismo da mandare a mente fino a farselo penetrare dentro e farlo diventare sangue del proprio sangue.
È il catechismo del capitalismo che comincia a diventare “cattivo” e aggressivo. Impossibile citare tutti i versetti “satanici”. Ne ho fatto una selezione:
- Proibito fidarsi
- Meglio offendere che subire
- Accontentarsi è umiliarsi
- La modestia fa solo danni
- I sentimenti sono extrabancari
- L’amore fa più vittime dell’odio
- Nessuno ti aiuta senza motivo
- Chi semina affetto? Raccoglie ricatto
- Le parole sono solo aria
- L’onestà? È un concetto astratto
- Chi si limita si amputa
- La furbizia è meglio della bontà
- La miseria altrui non ti riguarda
- Calunniare è stupido, seminare il dubbio è astuto
- Se aiuti qualcuno, lo sapranno in cento
E così via, cercando di instillare nel giovane Sigmund la forza dell’odio ed un solo e unico amore: quello per l’accumulo del capitale. E Sigmund, così forgiato, diventa anche lui uno squalo in grado di sbranare chi gli si para davanti.
Sapete qual è il cognome (noto, molto noto) di quella stirpe di ricconi? Loro sono i Lehman, sì proprio quelli che hanno creato a metà circa dell’Ottocento la Lehman Brother. Il fallimento della loro banca di affari nel 2008 dà di fatto inizio alla crisi economica da cui ancora non siamo usciti. A dimostrazione che la loro filosofia di vita, così tanto coltivata e conculcata nella testa dei discendenti, non li ha salvati, anzi forse è quella che li ha condannati.
Allora, cercando di ricapitolare le mie conoscenze di economia e finanza, la progressione naturale è questa: il lavoro, se va bene, riesce a produrre ricchezza e la possibilità di cominciare ad esercitare l’economia che in pratica vuol dire scegliere in che modo spendere la ricchezza prodotta, scegliere cioè le priorità di spesa. Fin qui si parla di denaro, ma forse non solo, infatti, sotto il termine ricchezza si possono comprendere diverse cose: beni mobili, immobili, capitale umano, ecc.
Quando l’economia va bene, molto bene, si creano ingenti flussi di denaro che vanno impiegati ed ecco che possiamo parlare di finanza, che in effetti si interessa e ragiona solo di denaro. Il denaro si vende e si compra, ed ecco che allora la finanza diventa banca. Secondo alcuni, mentre il lavoro crea ricchezza, la finanza invece finisce solo per redistribuire la ricchezza da un soggetto ad un altro. La torta non diventa più grossa, non cambia la sua dimensione, sono solo le fette che variano.
Il successivo passaggio è quello della finanza “mercatizzata”, che avviene quando la finanza, con un piglio ormai quasi ossessivo, comincia a vendere e comprare tutto (quasi a scommettere), per esempio anche i debiti che possono essere trattati come una qualsiasi altra merce, ma la frenesia è tale che il rischio di un improvviso crack, come abbiamo visto, diviene sempre più probabile.
Quello che possiamo notare in questa progressione sono, dal mio punto di vista, due cose.
La prima: tutto è comprensibile nei primi due stadi, quello del lavoro e quello dell’economia, quando si entra nel terzo, quello finanziario e nel quarto diventa più difficile orizzontarsi e si perde sempre di più il contatto con l’inizio della storia, con il lavoro.
La seconda: ho l’impressione che salendo nella scala dei vari stadi alle semplici e comprensibili emozioni iniziali (spesso ammirazione per l’ingegno e i risultati che alcuni riescono a ottenere con il loro lavoro) si infiltrino sempre di più all’interno di quegli ambienti aspetti di diffidenza e paranoia tali per cui ogni altro essere umano è un potenziale nemico.
È come se la finanza esaltasse gli aspetti divisivi, aggressivi e negativi, si potrebbe forse dire che la finanza uccide la naturale empatia umana?
Tutto pare molto diverso, per esempio, nella teoria degli stake holder o dei portatori di interesse che invece tende a mettere in evidenza l’importanza della rete di interessi comuni che ci sono anche tra soggetti apparentemente distanti o addirittura confliggenti. Per esempio se una banca fa un prestito ad una azienda ha tutto l’interesse che quella azienda vada bene perché così il prestito tornerà indietro e così tutti gli altri fornitori sono interessati al fatto che si instauri una sorta di circolo virtuoso che, facendo andar bene le cose, fa stare bene tutti. Ma a ben pensare anche i concorrenti di quella azienda possono avere un interesse alla stabilità del mercato e che quindi ognuno si mantenga senza troppa difficoltà la propria fetta. Facciamo l’esempio di un ristorante. È proprio vero che il singolo ristorante ha interesse a che i concorrenti falliscano, rimanendo così lui solo su piazza? Forse ad un calcolo miope sì, ma non si considera che se molti falliscono forse si spargerà la voce che in quel luogo non ci sono le condizioni per fare buona ristorazione e così questo finirà per ritorcersi anche contro l’unico esercizio rimasto in piedi.
Non sempre perciò le mire espansionistiche portano al miglioramento, senza contare che quando si affermano di solito la stabilità finisce e inizia la guerra.
Vorrei concludere questi ragionamenti sparsi cercando di ricondurli su una strada comune.
C’è qualcosa di più distante dal mondo della finanza del movimento della cooperazione sociale?
Alcune delle “sure” del catechismo che il povero Sigmund dovette imparare, ricordate sopra, per il nostro mondo valgono solo al contrario: per esempio è necessario fidarsi, oppure la miseria altrui ti deve riguardare e così via. Poi però mi è venuto qualche dubbio e mi sono detto: non sarà che la crisi ci è così entrata dentro che anche noi, anche il nostro mondo, ha finito per assorbire una parte di quei veleni? Lo penso quando sentiamo che i soli rimedi proposti per uscirne (dalla crisi) sono il diventare più grossi, che se vogliamo sopravvivere dobbiamo diventare competitivi (ovvero cattivi!) sul mercato. Forse non ci resta che fare come il povero Sigmund, ripetendoci ogni giorno che solo diventando qualcosa di profondamente differente a quello che eravamo, possiamo continuare a esistere.
Ne vale la pena?
Davvero non c’è altro modo se non arrendersi a quella cultura che, nascendo e sviluppandoci come cooperazione sociale e terzo settore in genere, abbiamo deciso di sfidare? La nostra è una cultura in cui non si punta al profitto, in cui non è vero che se non si cresce si muore, in cui piccolo, a volte, è anche bello, in cui la prevalenza vera dell’interesse va ai rapporti umani, alla comprensione delle storie e certamente insieme (e non dopo) anche alla sostenibilità.
Secondo me non è che chi si limita si amputa, lo fa chi non riesce a rispettare sé stesso e ad avere idee nuove che siano in grado di puntare però alla stessa utopia iniziale.
[*] Qualcosa sui Lehman – S. Massini – Mondadori 2016