di Andrea Friscelli (psichiatra)
La mente umana reagisce alle difficoltà, alle separazioni, ai lutti in mille modi diversi, ma se volessimo fare una sintesi queste reazioni si potrebbero raccogliere sotto due specie: il dolore persecutorio o quello depressivo.
Nella prima specie rientrano quelle reazioni di rabbia, di insofferenza a quello che è successo che pur con mille gradazioni diverse sono tutte caratterizzate dal tentativo di buttare al di fuori di sé quel dolore ed in fondo di trovare un colpevole con cui prendersela.
La seconda modalità invece tende a introiettare l’accaduto, a “sentire” che il mondo, a volte non solo il proprio, è finito, e quasi sempre a pensare che quello che è successo è colpa propria e così si piange in maniera disperata perché oltre al dolore c’è anche la colpa.
Attenzione non c’è una classifica tra le due modalità, non ce n’è una migliore e molto spesso capita che le due modalità si alternino nel corso del tempo nella stessa persona. In genere però, di questo sono convinto, la modalità depressiva, in cui si mettono in moto capacità autocritiche, di solito è l’anticamera di una risoluzione e di un superamento della crisi.
Solo quando ci si fa carico delle proprie responsabilità (ed a volte non è per nulla facile) siamo poi in grado anche di rimediare. Quando è possibile naturalmente, ma io credo che quasi in ogni evento esista una possibilità maggiore o minore di riparazione.
Che la situazione che stiamo vivendo oggi, impensabile solo fino a poche settimane fa, rappresenti una difficoltà è evidente. Ed ecco che quando ci vengono chiesti sacrifici pesanti per cercare di rimediare, scattano di nuovo differenti modi di approccio. È ovvio che l’esplosione virale non è certo singola responsabilità di noi tutti, ma nel momento in cui viene chiesto a tutti noi di non uscire, di non vedere i nostri cari, di resistere e di cambiare per un po’ le nostre abitudini quotidiane, ecco lì si misurano di nuovo modalità differenti.
Sono reazioni le più varie che vanno dalla semplice noia, all’impossibilità di sopportare, alla necessità di intravedere complotti e manovre. C’è chi dice che il virus è solo un’invenzione per coartarci e aprire la strada ad una nuova forma di dittatura. Altri che nella vita di prima non avevano particolari preferenze se non addirittura vere e proprie idiosincrasie, adesso scoprono che non possono fare a meno proprio di quelle cose. La sensazione è che queste sensazioni della serie persecutoria siano un modo per non entrare in contatto con il dolore, per nasconderlo sotto una nebbia fatta di rancore, rabbia o un malinteso senso di intoccabilità. Oggi nessuno è più abituato a accettare i limiti che a volte la realtà ci impone. Pensate a quanta pubblicità batte sul tasto che “no limits”, che la vecchiaia è sempre un po’ più in là, che tutti possono fare tutto, che la morte è solo un lontano e vago accidente. Si invoca a gran voce il vero valore, quello della libertà individuale che però è spesso declinato nell’espressione “io faccio come mi pare e nessuno mi può impedire nulla”.
Ma anche entrare in depressione finisce per non mobilitare quelle energie positive che in questo momento servirebbero. Anzi quasi sempre il depresso ha in uggia chi si dà da fare e col suo comportamento e con le sue parole si incarica di scoraggiare chi ha vicino, è tutto inutile, tanto ormai…
Quello che ci viene chiesto in questo periodo è di rimanere in casa, cosa che non parrebbe così difficile ma che probabilmente mette in risonanza alcune aree della mente che di solito si evidenziano poco. Queste sono un po’ analoghe alle precedenti che citavo, ma non sono le stesse. Parlo di due tendenze contrapposte: la claustrofobia ed il suo opposto la claustrofilia. Piccola spiegazione: il primo termine si riferisce a chi non può sentirsi costretto in spazi chiusi, il secondo invece a chi ricerca come protettivi proprio quelli e teme semmai il contatto con il mondo esterno.
La prima non va vista solo come la paura dell’ascensore o di luoghi chiusi ma anche come il timore di essere messo alle strette da qualcosa da cui è meglio fuggire, qualcosa che forse è dentro di noi e che si è sempre cercato di evitare. È il timore di essere stretti in un angolo e di non poter più evitare un drammatico confronto finale. Con che cosa? Con la malattia, l’infermità, la vecchiaia ma anche con i propri difetti, incapacità e paure. L’epidemia ci costringe a vivere una di queste situazioni, per la verità realissima. Una bella vignetta di Repubblica stamani spiega bene questi concetti e dice: “poi c’è l’angoscia di sentirsi troppo pericolosamente vicini a sé stessi.” Per questo molti ricorrono alle strategie solite, fatte di furbate, di scuse tipiche del genio italico, oppure al pensare che a lui quel sacrificio non tocca, non lo riguarda. Ma in questo momento tali comportamenti rischiano di venire allo scoperto e soprattutto di fare male a tutti gli altri.
La claustrofilia parte da premesse opposte alla precedente ma finisce per arrivare quasi agli stessi risultati. Saprete che in Giappone (ma si sta allargando ovunque) è stata descritta ed individuata una sindrome (sindrome di Hikikomori) che riguarda quei giovani ragazzi che non escono mai e che si autoimpongono una sorta di quarantena perpetua pensando di non aver bisogno di niente e di non poter affrontare quello che c’è fuori. Come? Semplicemente cancellandolo ed accettando per questo solitudine e ritiro sociale. Il rischio per tendenze di questo tipo è il ritiro da tutto, il pensare che ormai fuori è tutto finito e pericoloso e che solo fondendosi quasi in simbiosi con la propria casa, con il proprio interno si riesca a resistere.
Intendiamoci tutti abbiamo in qualche misura paura e brutti pensieri, nessuno è perfetto, forse però in questi momenti sarebbe opportuno cercare, con pudore, di tenerseli dentro, senza creare un effetto valanga. Siamo fatti sempre a mosaico e qualche tessera meno bella di altre tutti la possediamo, è opportuno esserne coscienti ma forse non è necessario esibirla.
Pertanto, lungi da me salire in cattedra ma credo che se conosciamo di più i nostri meccanismi interni possiamo resistere un po’ meglio a questa prova che sappiamo quando è iniziata ma non sappiamo ancora quando finirà.
Vorrei finire confessando quali sono le mie malinconie di questi giorni. Mi capita di pensare che questo periodo di forzata solitudine nessuno ce lo renderà ed anche se finirà avremo comunque perso per sempre sorrisi, abbracci, baci, lacrime, compleanni, bizze di bimbi e magari contrasti di adulti, insomma perderemo una tranche di vita di quelli che ci sono più cari.
Ed è un pensiero triste specialmente quando si ha una certa età.
Poi vedo però quanta gente si dà da fare riuscendo a esprimere, pur con le loro rabbie e paure, tanta solidarietà e impegno verso che si sta ammalando e allora penso che questo periodo un po’ triste e solitario, questo piccolo sacrificio sarà certamente ben speso.