di Andrea Friscelli
Ho passato buona parte della mia vita all’Orto de’ Pecci. Diciamo una quarantina d’anni, certo non interamente ma per buona parte delle mie giornate, trascorsi con sentimenti che verso quel luogo sono cambiati nel corso del tempo. Forse un po’ infastidito di dover lasciare il lavoro di corsia per andare in “campagna” in una prima fase, poi sempre più conquistato dalla bellezza del luogo e poi definitivamente catturato da quello che lì insieme a tanti altri amici si provava con qualche successo a fare. L’ultimo stadio è stata quella di poter dire, con qualche ragione, che quel posto è diventato casa mia, anche negli ultimi tempi in cui le mie responsabilità all’interno della cooperativa che lo ha in gestione, sono diminuite.
Questa premessa per dire che in qualche momento mi sono sentito quasi il depositario del “genius loci”, fino a che un giorno sono venuto a sapere una notizia che mi ha un po’ ridimensionato.
Esiste qualcuno che all’Orto c’è nato, intendo fisicamente, è venuto cioè alla luce in quel luogo, iscrivendolo così per sempre nella sua vita molto più del sottoscritto.
È la storia della famiglia Agnorelli che ha visto nascere in quel posto i due figli, Lidia nel 1921 e Furio nel 1933. Agnorelli padre lavorava come infermiere all’OP ed ebbe in affitto dalle Pie Disposizioni una delle case dentro l’orto, quella dove adesso ci sono gli uffici della cooperativa. Da notare che anche nell’altra casa, quella dove adesso c’è il ristorante, abitava una seconda famiglia, i Minucci anche loro con due figli che però non erano nati all’Orto. Visto che poi entrambe le famiglie si trasferirono, gli Agnorelli sono le uniche due persone che possono dire di essere nate laggiù.
Il signor Furio, che ho conosciuto e con il quale ho parlato qualche volta, fino a qualche tempo fa frequentava i nostri eventi, dimostrando così di tornare volentieri sul suolo natio. Mi ha sempre detto di non ricordare molto personalmente, anche perché il trasferimento dall’orto fu nel 1934, quando lui aveva solo un anno. Ma la sorella parlava di quel posto come di una sorta di eden, con tanto verde e moltissimi alberi da frutto. Ricordava in modo particolare un malato che ogni giorno raccoglieva la frutta e la portava a loro, tanto che lei ne era diventata quasi amica. Una mattina, ricordava Lidia, lui si fermò immobile di fronte ad un albero e le disse: “Vedi lassù sull’albero ci sono delle persone” e lei, visto che non c’era nessuno, ne rimase un po’ turbata. Ma la convivenza con i malati, che allora numerosi frequentavano l’orto per mandare avanti le varie produzioni, non ha mai creato difficoltà più serie di questo.
I problemi erano di altro tipo – ricordano ancora gli Agnorelli – Il luogo sia pur bello era isolato dalla città. Il cancello di Porta Giustizia era sempre chiuso a chiave e se qualcuno andava a trovarli, dopo il suono del campanello dovevano fare molta strada per andare ad aprire ed accogliere gli ospiti. Inoltre, nessuno dei loro amici scendeva volentieri in quel luogo, forse per la distanza o forse anche per il timore che lo stesso incuteva.
Poi probabilmente la stagione delle case affittate giù all’orto finì e i due edifici cominciarono ad essere utilizzati con funzioni legate alla produzione agricola. Molti anni più tardi quando nei primi anni Ottanta conobbi quel luogo erano utilizzati come magazzini degli attrezzi e dei prodotti e come occasionale riparo per i lavoratori che probabilmente mangiavano qualcosa lì dentro. Francamente erano piuttosto mal ridotti e là dove ora c’è il ristorante si poteva vedere una spelonca affumicata dove il fuoco veniva su un pavimento di cui non si capiva bene neppure la natura.
Possiamo davvero dire che l’Orto de’ Pecci ha avuto diverse vite e sarebbe interessante una volta metterle insieme e raccontare la storia quasi millenaria di questo magico luogo di Siena.