Chi viveva nel Borgo Nuovo di Santa Maria a inizio del Trecento?
Quante case c’erano? Da dove venivano gli immigrati che volevano diventare cittadini senesi?
Che mestiere facevano? Come si sceglievano i “vicini di casa”?
di Duccio Balestracci
Mentre Roberto Cresti sta ricostruendo la storia della Valle di Porta Giustizia, dai miei cassetti emergono materiali raccolti quando ero laureato di fresco (la data della mia laurea è 4 luglio 1974: pensate un po’…) destinati a diventare un articolo scientifico e, invece, mai utilizzati. Sono riemerse, così, alcune dilavate schede e alcuni disorganici appunti tratti dalla “Tavola delle Possessioni” ( quella sorta di “catasto” il cui anno-fulcro di redazione può essere convenzionalmente fissato al 1318) e dalla Biccherna con molti nomi di neo-senesi. E, insieme a questo disorganico materiale, sono riaffiorate anche alcune domande. Per esempio: chi ci abitava nell’allora Borgo Nuovo di Santa Maria (non ancora Orto de’ Pecci) costituito per accogliere gli immigrati (quelli di un certo rango eh! I poveri cani non ce li volevano: certi atteggiamenti mentali non li hanno inventati oggi) fin dal primo Trecento? Quanti erano? Da dove venivano?
Dai miei riscontri di allora (lo dico subito: mai più ricontrollati, quindi prendete tutto in maniera indicativa) si direbbe che alla vigilia degli anni Venti del Trecento c’erano, nella vallata 123 abitazioni. Chi le occupava proveniva, nella quasi totalità dei casi, dal territorio dello Stato senese con poche eccezioni: c’è una famiglia di fiorentini, una viene da Pistoia, ce n’è un’altra che viene da Mercatale (quello in Val di Pesa?). Per il resto, da Torrita si inurbano 6 nuclei familiari; da Sinalunga 5; arrivano da Giomoli 4 famiglie; 3 da Montalcino e 2, rispettivamente, da San Quirico, Asciano, Chiusure, Ancaiano, Orgia, Toiano, Abbadia a Isola e Montagutolo. Ma se volete la lista completa delle provenienze (alcune delle quali da verificare, ve lo dico subito), eccole qua: i nuovi senesi del primo ventennio del Trecento venivano da Abbadia a Isola, Ancaiano, Asciano, Barontoli, Bettolle, Catelmuzio, Catignano, Cerrecchio, Chiusure, Firenze, Giomoli, Grosseto,Maggiano, Mercatale, Montagutolo, Montalcino, Montaperti, Montechiaro, Montefollonico, Montepulciano, Monticchiello, Monticiano, Montisi, Montorgiali, Orgia, Pari, Percenna, Pistoia, Roccastrada, Santa Colomba, Rofeno, Pieve di San Giovanni (a Cerreto), San Giusto, San Piero in Barca, San Quirico, Santa Croce, Santa Maria a Sesta, Selvole, Serre (di Rapolano), Sinalunga, Strove, Toiano, Torrita, Usinina, Viteccio. Presenze significative dalla Scialenga, come si vede, dalla Berardenga, dalla Scialenga, dalla Maremma, dalla Val d’Orcia e dall’area contigua alla Val di Chiana, ma, per il resto, un ventaglio di “luoghi di partenza” estremamente ampio.
Ma chi erano? E, soprattutto, quale mestiere esercitavano? Su questo, le fonti che, all’epoca, avevo consultato (e che, lo ripeto, non ho più approfondito: quindi prendete tutto in maniera indicativa anche in questo caso) sono piuttosto avare. Avevo potuto identificare solo pochi mestieri degli immigrati; per dire: che mestiere faceva quel “dominus” Nini che non si sa da dove venga? E quelli che si fregiano del titolo di “ser”, chi sono? Il titolo era riservato, in genere, oltre che agli ecclesiastici, ai notai, ai maestri, ai medici, ma chi fosse, per esempio, quel ser Pietro Sernini di Sinalunga non saprei dirlo, né quale fosse lo status professionale di ser Brandino da Grosseto, di ser Paolo o di altri con lo stesso titolo, che arrivarono da non so dove. Magister Tura di Ventura di che cosa era maestro? Invece siamo più fortunati con magister Onorato da Montepulciano, medico (fisicus) come ser Guido da Castelmuzio. Di Guidone di Cenni sappiamo che era un giudice e che veniva da Montepulciano. Altri mestieri? Uno speziale, un macellaio (del quale, peraltro, non sono riuscito a capire la provenienza). Su tutti gli altri, invece, nebbia assoluta.
Le loro case (il cui valore oscilla da un minimo di 100 a un massimo di 200 lire: cifre che garantiscono non alloggi di lusso, ma comunque abitazioni dignitose) si snodavano forse lungo una doppia viabilità: si parla, infatti, di una “strata” (che convenzionalmente indica la strada pubblica principale) e di una via (termine che designa di regola un ramo di secondaria importanza rispetto all’altro), oltre che di case che hanno, da un lato il fossato e che non ho capito se facciano parte dell’uno o dell’altro asse di percorrenza. Per il resto, i lotti previsti per le abitazioni (numerati: si indicano con i numeri quelli ancora non edificati, come platea XXXVIII, platea XL e così via), un certo numero dei quali insistono su terreni di proprietà del Santa Maria della Scala (l’ente onnipresente che, evidentemente, ha preso parte in qualche modo alla lottizzazione), creano un immenso condominio all’interno dal quale, almeno da quanto si può capire leggendo le confinazioni delle case, pare essersi ricreata una solidarietà familiare o di provenienza. Non è cosa sconosciuta, beninteso: tutta la storiografia sulle “terre nuove” medievali ci dice che chi emigra si cerca la nuova casa vicino ad altre persone che vengono dal suo stesso posto. In certe “città nuove” (clamorosi i casi spagnoli, per fare un esempio) questo crea veri e propri quartieri identificabili per provenienza, magari perfino dotati di chiesa intitolata al santo protettore della località d’origine.
Nel Borgo Nuovo di Santa Maria non si arriva a tanto, ma le proprietà denotano che nuclei di una stessa famiglia originaria hanno acquistato case contigue, così come hanno fatto persone che, pur non sembrando – da quel che si capisce – parenti, hanno comunque scelto di vivere a uscio e muro (alla lettera) con altri loro compaesani. Qualche esempio? Andrea di Frosino di Torrita acquista una casa contigua a quella del suo conterraneo Guglielmo di Risalito, così come fa Guido di Dota che è “coinquilino” di Ghezzo di Benveuto che, come lui, viene da Toiano (peraltro, solo due o tre abitazioni accanto a loro ha trovato alloggio anche Mino di Rozzo che con gli altri due condivide il luogo di origine); Pietro di Aiuto e Ciampolo di Vivolo, probabilmente, avranno avuto modo, affacciandosi ai rispettivi usci, aperti l’uno accanto all’altro, di condividere qualche ricordo della loro natìa Sinalunga; Mino di Ventura da Montechiaro costruisce la sua abitazione accanto a quella di Fazio di Guidarello che viene dal vicinissimo insediamento d’origine della Pieve di San Giovanni a Cerreto. Cardo di Mino e Nasso di Mino sono, invece, verosimilmente fratelli e, dalla loro Abbadia a Isola, si insediano in due alloggi contigui, esattamente come fanno Nino e ser Paolo Sernini, di Sinalunga.
Bene o male, Siena per questa gente è una terra straniera. E in una terra straniera ci si fa coraggio facendo gruppo e ricreando una micro solidarietà.
I felici (o comunque sereni) abitatori del nuovo spicchio di città, in questi anni Venti del Trecento, ovviamente non possono sapere che sulle loro case, appena una generazione dopo, si abbatterà un asteroide chiamato Peste Nera e destinato a cancellare vite, memorie, solidarietà. E a riportare un intero quartiere “ad ortos”, come si legge in una delibera di fine Trecento, quando i governanti dovranno prendere atto che nel Borgo Nuovo di Santa Maria, ormai, gli unici (o quasi gli unici) esseri umani che pestavano quella “strata” erano i condannati che la percorrevano, scortati dai soldati, per andare a farsi impiccare alle forche di Pecorile, fuori da Porta Giustizia.