di Andrea Friscelli
Come promesso qualche settimana fa comincio oggi la galleria di ritratti di coloro che, provenienti da disagi vari, hanno, nel corso del tempo, lavorato nel nostro ristorante, cercando anche di disegnarne la parabola al nostro interno.
Con qualche necessaria premessa.
L’attività del ristorante iniziò intorno alla metà degli anni Novanta e se adesso “All’Orto de’ Pecci” è un ristorante a tutti gli effetti, inserito in varie guide (non nella Michelin, è vero, ancora non ci siamo! ma nella Lonely Planet sì) c’è stato bisogno di un lungo periodo di tentativi, errori e aggiustamenti per arrivare a questo punto. Lo dico perché riflettendo sulle storie da raccontare mi sono reso conto che alcuni personaggi che sono stati con noi all’inizio certo non troverebbero posto oggi. Gli inizi sono stati poveri ed all’insegna di un certo dilettantismo che per questo lasciava spazi notevoli all’inserimento di persone non solo con problemi ma anche senza alcuna preparazione, persone che non avrebbero trovato spazio in nessun altro locale (del mondo, forse).
Oggi questo spazio di inserimento è ancora presente, ma il livello di efficienza anche di coloro che provengono da situazioni disagiate deve essere un po’ maggiore per garantire che il tono globale sia migliore. La persona che voglio descrivere oggi e di cui voglio tratteggiare la storia è fortemente legato a quel primo periodo e, con un velo di malinconia, dico che oggi non troverebbe più spazio dietro il bancone del nostro bar. Magari con altre funzioni sì ma come barista non sarebbe proponibile. Per fortuna Edo, questo il suo nome, ha fatto in tempo a raggiungere l’età della pensione prima che un certo successo si affermasse e non è stato pertanto necessario sottoporlo a nessuna esclusione.
Come già accennato, Edo adesso non lavora più da noi, anche se in qualche modo un legame esiste ancora, visto che quando si trova di fronte a qualche problema, telefona e ci chiede aiuto.
Il suo aspetto fisico non è cambiato di molto da quando nei primi anni Novanta lo abbiamo conosciuto. Ce lo presentò una assistente sociale che aveva un qualche grado di parentela con lui, tanto che portava lo stesso cognome. Fu “catalogato” come caso sociale, ma in realtà la sua situazione poteva essere descritta come una “doppia diagnosi”, da un lato cioè una discreta dipendenza dall’alcol e dall’altro una personalità che strutturandosi nella solitudine e nell’indigenza, lo rendeva spesso disforico o depresso. Era ormai solo al mondo, essendo i suoi morti da tempo ed i suoi problemi erano principalmente il forte isolamento sociale e una condizione economica molto precaria.
Edo, per far capire il modo tipico che aveva di rapportarsi, non salutava mai. Se lo incontravi in città, era certo che si voltasse di là, punto e basta. Invece incrociandolo giù all’orto a volte capitava che un saluto biascicato gli riuscisse di farlo. Eppure è una delle persone cui tutto il nostro staff è stata più affezionata. Specialmente le ragazze giovani lo trovavano fantastico e sostenevano che fosse facile volergli bene. Forse, chissà, sollecitava in loro il ricordo di un vecchio nonno o di qualche zio “pinzo” scorbutico e scontroso.
Aveva svolto qualche lavoro in passato, adesso invece, ormai da anni era del tutto disoccupato.
Lo accettammo inaugurando con lui l’impegno della cooperativa verso la categoria di quei casi, come accennavo prima, un po’ “misti”, accolti con lo scopo formale di dare un lavoro ma anche con quella sostanziale di assicurare un piccolo reddito.
Nonostante la sua dipendenza dall’alcool, nessuno di noi lo ha mai visto ubriaco o molesto. La sua era una dipendenza solitaria, beveva di nascosto e senza mai esagerare. Era un animale da bar, e nel pomeriggio o nei giorni liberi stazionava per ore ai tavoli di bar di infimo ordine con qualche personaggio come lui. Sembrava uscito da una vignetta di Tambus, una specie di “Gostino che parla con il colonnino”, ma di umore sempre nero e scorbellato.
Per questo quando si dovette pensare a come impiegarlo nelle nostre attività, venne a tutti facile pensare che potesse occuparsi del bar. Edo s’impadronì del bancone bar a metà degli anni Novanta e l’ha lasciato quando è andato via. Quel posto sopra la pedana gli era così congeniale che sembrava quasi esservi inglobato, nato dentro quello spazio. Certo il lavoro non era molto, per tanti anni il bar ha lavorato, tranne rare eccezioni, solo per i dipendenti e gli inseriti all’orto, ma lui presidiava la posizione giornalmente ed era inflessibile nel riscuotere quei pochi spiccioli di un caffè o di una bibita. Nei momenti di solitudine qualche sorso di vino gratis se lo beveva e poi, per non farsene accorgere, utilizzava il vecchio metodo di allungare con acqua in modo che il livello della bottiglia rimanesse inalterato. Siccome i clienti, come ho già detto, erano spesso altri soggetti come lui, capitava spesso che non avessero nemmeno i pochi soldi per il caffè. Edo allora si arrabbiava e teneva il conto delle consumazioni non pagate con una memoria di ferro, forse perché – viene da sospettare – finalmente felice di trovarsi per una volta dalla parte giusta del bancone. Con qualcuno, particolarmente noto per non essere un gran pagatore, era passato al pagamento anticipato, prima mi dai i soldi e poi ti faccio il caffè. Ricordo di averlo visto nel corso di una di queste trattative rovesciare nell’acquaio il caffè fumante, quando si rese conto che dalla parte di là non c’era credito: eh no, bellina, niente soldi, niente caffè!
Aveva un viso tondo, lenti spesse sugli occhi chiari, sotto una coppola, sempre la stessa per anni, portava spesso i capelli lunghi non per moda, ma per non spendere dal barbiere. Non aveva certo un aspetto elegante, ma una sorta di trasandatezza sciatta che sottolineava il suo carattere burbero, in bocca quasi sempre uno stecchino biascicato a giornata da un lato ed un mezzo sigaro toscano spento dall’altro.
Ci vuol poco a capire che il potenziale cliente, il turista che di passaggio all’orto desiderava una bibita o qualche ristoro, trovandoselo davanti con il gomito appoggiato al bancone e con lo sguardo perennemente incazzato, non fosse molto invogliato a frequentare il bar dell’orto. Molti probabilmente giravano i tacchi e andavano a cercare altrove, ma nessuno in cooperativa si è mai sentito di cambiargli funzione e posto. Qualche tentativo di fargli presente che un aspetto più curato nel vestiario e nei modi sarebbe stato più opportuno, è sempre caduto nel silenzio, al massimo da parte sua c’è stato qualche grugnito affermativo di risposta, cui però non seguiva nessun cambiamento. Infine sapendo che la pensione era vicina, nessuno con lui ha più insistito.
Ma se succedeva che avesse bisogno di qualcosa, una bolletta troppo alta da pagare, qualche foglio da riempire, allora avveniva un cambiamento. Entrava in ufficio con il cappello in mano e quasi subito nel parlare, la voce sembrava incrinarsi fino quasi a piangere, più per la rabbia di dover chiedere che altro. Un atteggiamento che rendeva davvero difficile avere con lui un rapporto chiaro e sereno.
Nel corso degli anni però divenne chiaro che, a suo modo, anche lui aveva un attaccamento per la cooperativa, sembrava tenerci e pensare che, secondo lui, non tutti fossero adatti a rimanere. Anche nei confronti del presidente (a quei tempi il sottoscritto) aveva piano piano assunto un atteggiamento rispettoso, anche se quei due in dieci anni avranno scambiato si e no venti parole, così come si contano sulle dita di una mano i suoi interventi nelle assemblee o negli incontri di lavoro. Comunque, pessimista per DNA, era sempre preoccupato delle condizioni finanziarie e si mostrava scettico sulle possibilità di sopravvivenza della nostra esperienza.
Da giovane si diceva che avesse fatto il fornaio, ma che poi una sorta di allergia alla farina lo avesse costretto ad abbandonare il lavoro, poi la salute era peggiorata ed era subentrato il diabete con ulcere torpide ai piedi che lo costringevano a camminare piano e a frequentare spesso l’ospedale.
La vita, con lui sempre avara, si è incaricata di ridurre le sue speranze, i suoi desideri e per paradosso anche il suo nome. Così Edoardo è diventato Edo ed è oggi l’adulto che conosciamo: scorbutico e burbero.
Pensare adesso che a lui avevamo affidato l’accoglienza, il primo impatto con il nostro ristorante ci mette, alla luce del lavoro odierno, i brividi, ma nello stesso tempo ci rende orgogliosi di aver fatto un pezzo di strada insieme.