di Andrea Friscelli
Da tempo mi gira in testa una domanda. La domanda è: ma può essere che una canzone pop (neanche tanto conosciuta) rappresenti uno dei caposaldi nella mia formazione culturale tanto da tornarmi in mente spesso, anche dopo quaranta anni? Non sarebbe meglio – mi chiedo ancora – più “politically correct”, se, nel mio curriculum, potessi citare testi importanti, oppure qualcuno di quegli incontri che cambiano la vita, o frequentazioni in importanti università o cose simili? Con un pizzico d’imbarazzo non posso non rispondere che per me è proprio così, che anche se sono ormai passati tutti questi anni, da uno di quei recessi nascosti della memoria spesso mi torna in mente il testo di quella canzone come un tassello importante della mia formazione giovanile.
È ovvio che non c’è stato solo quello, se così fosse sarebbe un bel guaio! tante altre cose hanno contribuito a farmi diventare quello che sono adesso, ma quelle parole hanno certamente orientato, a questo punto credo di poter dire per sempre, il mio atteggiamento verso alcuni aspetti della realtà.
La canzone è “There but for fortune”, edita nel 1966 e portata al successo da Joan Baez, ma composta dal cantautore americano Phil Ochs, sul quale vale la pena di spendere qualche parola in più.
“Scrissi questa canzone pensando a un vecchio modo di dire, ‘There but for the grace of God’ (siamo qui solo per grazia di Dio). Ma la grazia di Dio non esiste.” – così l’autore spiega in modo ultimativo e sottilmente blasfemo come, con la sostituzione alla grazia di Dio con il cieco ed impietoso caso, è scaturito il testo. Nato nel ’40, ben presto si segnalò per il suo atteggiamento di contestazione alla società americana degli anni Sessanta. Si esprimeva con la musica, ma forse soprattutto con i testi, tanto da definirsi un “cantautore giornalistico”. Il suo interesse era sollecitato sempre dalle questioni sociali (diceva di prender spunto solo da storie vere lette su Newsweek) e pacifiste su cui scrisse diverse ballate. Aveva probabilmente pensato di riuscire ad ottenere un maggiore successo, così quando la sua carriera cominciò a declinare, rimase molto deluso, ma anche le vicende politiche quali l’assassinio di Martin L. King, di Bob Kennedy, l’elezione di Nixon, minarono in maniera definitiva il suo equilibrio mentale e così si suicidò nell’aprile del 1976, solo dieci anni dopo il grande successo di “There but for fortune”.
La canzone, come molte di quel periodo caratterizzato da un’atmosfera appassionata e piena di ideali, è una ballata dolce e malinconica il cui testo rappresenta una sorta di dialogo interiore tra due parti che rappresentano, si potrebbe azzardare, due diverse filosofie di guardare il mondo. La prima fa notare all’altra le miserie di alcuni personaggi: un carcerato, un ubriacone, un barbone, la seconda allora risponde che ognuno di loro ha mille ragioni e motivi per trovarsi in quelle condizioni e soprattutto che è solo per caso che al loro posto non ci siano altri, magari proprio loro due. La prima pone l’accento sulle cose: le prigioni, le macchie di vomito sul pavimento, l’ambiente squallido di una stazione; la seconda invece è attratta dalle persone: il poveretto finito in carcere, l’ubriacone o il barbone e lascia intuire che per ciascuno di loro ci sono ragioni, spiegazioni. E che tutto avviene un po’ per caso, per fortuna, o meglio per sfortuna.
Potrebbe sembrare un testo biecamente giustificazionista (oggi sarebbe bollato come buonista), dove si finisce per negare il principio di responsabilità, del tutto distante da quel pensiero che ci ricorda come ognuno nella vita costruisce il proprio destino. Oppure troppo relativista, come se al fondo tutti fossero uguali e le differenze nascessero solo dal caso che più caso non si può. In realtà nel testo si rintraccia la presenza di quel determinismo sociale che muoveva i primi passi in quegli anni e che ha informato di sé, per esempio, tutta la moderna psichiatria.
Ma perché – continuo a chiedermi – di tanto in tanto mi torna in mente quella vecchia ballata?
Chi come me ha vissuto e vive a stretto contatto con persone difficili o troppo fragili, con gli ultimi del mondo, con quelli che hanno fallito o che nella vita non ne hanno azzeccata neppure una, finisce spesso per avvertire dentro sentimenti negativi, che vanno dalla semplice noia fino all’emergere quasi inconsapevole di atteggiamenti supponenti, se non crudeli. Atteggiamenti che stanno dentro i propri angoli sconosciuti e che a volte spuntano fuori del tutto inattesi, quando, per esempio, dentro un ambiente di lavoro come una cooperativa sociale ci scocciamo perché alcuni non “rendono”, sono lenti, svogliati, non capiscono, non ci sono sufficientemente grati o semplicemente ci ignorano.
In quei momenti, quelle parole mi tornano in mente come una salutare medicina da assumere o da somministrare; una medicina composta in parti uguali di umiltà e di voglia di capire le storie delle persone nel tentativo di mettere il rapporto su un piano più paritario possibile.
Le storie delle persone parlano, raccontano, ci sorprendono, ci commuovono, ci emozionano, ci fanno sentire bene o male, ma solo se decidiamo di ascoltarle, di andarle a cercare. Troppo spesso siamo distratti o troppo pressati da altre impellenti esigenze che ci portano ad emettere giudizi definitivi e trancianti.
Qualche volta basterebbe forse ricordare che, come dice la canzone, è solo per caso che noi siamo noi e loro sono loro.
Di seguito il testo inglese e la traduzione italiana.
There but for fortune
Phil Ochs
Show me a prison, show me a jail,
Show me a prisoner whose face has gone pale
And I’ll show you a young man with so many reasons why
And there but for fortune, may go you or I — you and I.
Show me the alley, show me the train,
Show me a hobo who sleeps out in the rain,
And I’ll show you a young man with so many reasons why
There but for fortune, may go you or go I — you and I.
Show me the whiskey stains on the floor,
Show me the drunken man as he stumbles out the door,
And I’ll show you a young man with so many reasons why
There but for fortune, may go you or go I — you and I.
Show me the famine, show me the frail
Eyes with no future that show how we failed
And I’ll show you the children with so many reasons why
There but for fortune, go you or I.
Show me the country where bombs had to fall,
Show me the ruins of buildings once so tall,
And I’ll show you a young land with so many reasons why
There but for fortune, go you or go I — you and I.
You and I,
There but for fortune, go you or go I — you and I.
Lì solo per caso
Phil Ochs
Tu indicami una prigione, mostrami un carcere,
indicami un prigioniero con la faccia impallidita
e io ti mostrerò un ragazzo con troppi motivi
che è lì solo per caso, potremmo esserci tu o io – io e te.
Tu Indicami la strada, indicami la stazione,
indicami un vagabondo che dorme sotto la pioggia,
e io ti mostrerò un uomo con troppi motivi
che è lì solo per caso, potremmo esserci tu o io – io e te.
Fammi vedere le macchie di whisky sul pavimento,
mostrami l’ubriaco che inciampa sulla porta,
e io ti mostrerò un ragazzo con troppi motivi
che si trova lì solo per caso, potremmo esserci tu o io – io e te.
Indicami la fame, indicami la fragilità
occhi senza futuro che raccontano la nostra disfatta
e ti mostrerò bambini con troppi motivi
i quali si trovano lì solo per caso, potremmo esserci io e te.
Indicami il paese dove le bombe dovevano cadere,
indicami le rovine di edifici una volta interi,
e ti mostrerò una terra giovane con troppi motivi
che si è trovata lì solo per sfortuna, potremmo esserci tu o io – io e te.
Io e te,
lì solo per caso, potremmo esserci tu o io – io e te.
Chi volesse ascoltare il pezzo può andare su You Tube e digitando il titolo potrà vedere varie versioni della canzone, da quella di Joan Baez a quella dell’autore Phil Ochs, a quella in italiano di Francoise Hardy, veramente indegna e che ne stravolge completamente il testo trasformandolo in una melensa canzonetta di amore, distruggendo completamente la carica eversiva ed al tempo stesso riflessiva che in realtà conserva intatta anche oggi.