di Andrea Friscelli
Nelle precedenti puntate ho cercato di dimostrare come l’attività di un normale ristorante possa, in realtà, essere molto ansiogena e, per sopportare quell’ansia, richiedere la necessità di un gruppo di lavoro forte e compatto. Prima di passare a descrivere come, almeno nella nostra esperienza, siamo riusciti a coinvolgere stabilmente in un tale lavoro persone con svantaggio psichico, vorrei svolgere un’altra considerazione di ordine generale. Pur nel panorama attuale della crisi economica, l’attività dei ristoranti risulta, in genere, piuttosto buona o perlomeno non in crisi come molte altre. Si potrebbe quasi definire, proprio in questi periodi, una specie di “consumo rifugio”. Si rinuncia a tutto, ma non a una buona cena nel ristorante preferito. È facile pensare, proprio per questo, che il cliente oggi scelga con oculatezza e attenzione dove andare e di conseguenza in cambio pretenda. Come dire, se i soldi da spendere sono pochi, me li voglio giocare bene.
Questo connota l’attività ristorativa ancora di più come un’attività non “facile”, sottoposta ad un giudizio attento che valuta molte cose: la qualità del cibo, del servizio, la “location” e molto altro in una sorta di corsa ad ostacoli dove per emergere bisogna sempre essere competitivi.
Quindi per riassumere attività fortemente competitiva e ansiogena, dove si mette molto tempo per conquistare mercato e fiducia e pochissimo (bastano due o tre brutte recensioni su qualcuno dei motori di ricerca) per perderla.
Come si può riuscire, per venire a noi, a mediare esigenze che sono così diverse tra loro? da un lato competitività e sfrenata concorrenza e dall’altra creazione di un ambiente in cui persone con difficoltà possano muovere con calma i primi passi nel mondo del lavoro?
Innanzi tutto è necessario avere a disposizione uno staff (un piccolo frammento della brigata di cucina composta di cuoco, aiuto cuoco, cameriere) che funzioni e sia in grado di assicurare le funzioni essenziali, anche in condizioni di stress. Ma spesso succede (così almeno è capitato a noi) che a questa capacità non sempre sia accoppiata una disponibilità delle stesse persone ad avere empatia e ascolto per chi arriva per imparare. Molto spesso questi individui sono visti come un intralcio a un ritmo più rapido ed efficiente, insomma un compito in più di cui fare volentieri a meno.
È qui che entra in funzione la responsabilità della dirigenza cooperativa che della capacità, appunto, di cooperare al proprio interno e con altri possibili attori non può non essere dotata. Il gruppo dirigente, cioè, deve essere capace di creare un contenitore dialettico all’interno del quale si possano gestire le difficoltà, le conflittualità legate a tali dinamiche. Quando ci si riesce, è come se si sedessero intorno al tavolo della discussione varie esigenze, spesso contrapposte tra loro. La prima è la necessità di tenere sempre sotto occhio i conti, ci vuole qualcuno che impietosamente a ogni proposta anche la più entusiasmante chieda – “quanto costa?” e magari poi sia anche in grado di dare una risposta. Un’altra istanza che non può mancare è poi l’attenzione quasi ossessiva al servizio che si presta, il che vuol dire decidere i menù, gli orari di servizio, curare i rapporti con i clienti, essere in grado di fare eventuali richiami al personale. Insieme alle precedenti però deve sempre coesistere la preoccupazione per gli inseriti, per capire se stanno imparando il mestiere e quali rapporti stanno creando con gli altri, di cosa hanno bisogno e che opponga agli atteggiamenti interpretativi a volte sbrigativi degli altri rispetto alle difficoltà che sempre emergono, una conoscenza più dettagliata del caso e della storia, conoscenza che è l’unica in grado di stemperare antipatie o brutti rapporti. Queste esigenze finiscono naturalmente per essere, spesso, impersonate dalle stesse persone, ma non sempre i ruoli sono così precisi.
Quello che è ancora più importante è, a mio parere, che nessuna di queste istanze, incarnate da persone, abbia mai la meglio stabilmente sulle altre. La vittoria di una di queste, infatti, significherebbe la perdita di quel fragile equilibrio che tiene in piedi tutto il meccanismo, una sorta di benefico strabismo per cui un occhio guarda al profitto e l’altro alla possibile crescita e felicità delle persone che ci vengono affidate. La formazione stabile di questo contenitore mentale “condanna” a continue discussioni che possono dare a volte l’impressione di rimestare acqua nel mortaio perché si finisce per affrontare spesso le stesse cose.
Ma se non si ha pazienza, a mio parere, non si può scegliere questo lavoro.
Può essere (anzi è quasi certo!) che questa metodica porti a una certa diminuzione dell’efficienza, come può essere che in un ristorante “normale”, condotto da un proprietario, ci si metta un terzo del tempo per decidere le stesse cose che nel nostro ristorante “sociale” obbligano invece a interminabili discussioni.
Provando, quindi, a ricapitolare l’organizzazione che col tempo si è consolidata nella conduzione del nostro ristorante sociale, si basa su tre livelli: il primo è quello dirigenziale che ho cercato di descrivere, il secondo è il vero e proprio staff tecnico di cucina, il terzo è l’insieme dei soggetti svantaggiati presenti.
I bisogni e le capacità dei tre livelli sono naturalmente diversi ma tra loro profondamente interconnessi: il primo deve fungere, come dire, da coscienza critica attenta a evitare squilibri che sarebbero letali e deve avere capacità dialettiche inesauribili, il secondo deve riuscire a lavorare senza distaccarsi troppo dagli indirizzi generali ma senza neppure rimanerne prigioniero, il terzo infine deve avere in genere punti di riferimento precisi, regole chiare, possibilità di colloqui e di verifiche incrociate.
Tutti i sistemi devono essere sufficientemente (ma non troppo!) permeabili tra loro.
Se l’impianto così strutturato funziona, si crea una sorta di mirabile imperfezione che si può permettere di sostituire l’apparato militare con un gruppo di diversa natura all’interno del quale possano crescere efficienza, capacità di guadagno, ma anche attitudini genitoriali e formative verso persone fragili.
È ovvio che il ragionamento “regge”, se il tutto ha una dimensione quasi familiare. Nello stesso tempo siamo consapevoli che una simile qualità di rapporti si può stabilire anche nei ristoranti normali.
Abbiamo solo l’ambizione di pensare che noi siamo riusciti, attraverso tentativi ed errori, a renderla quasi “scientifica”.
Ci chiediamo anche quanto tutto quello che abbiamo detto possa interessare al nostro pubblico.
In fondo chi va in un ristorante cerca cose semplici e chiare: buon cibo, servizio accogliente, ambiente sereno e per queste cose è disposto a pagare un giusto prezzo.
Pensiamo però che qualcuno di loro possa essere interessato a conoscere meglio e da dentro il nostro lavoro tanto da scegliere il nostro ristorante in un modo più ragionato e consapevole.
Infine ci chiediamo (in verità un po’ lo speriamo) se questa conoscenza non possa permettere di sopportare meglio (quando ce ne fosse bisogno) i difetti del nostro ristorante che per quanto mirabili, restano sempre imperfezioni.
Vorrei riservare la prossima puntata a una descrizione più dettagliata dei ruoli e dell’impegno dei soggetti svantaggiati attraverso il racconto di alcune “storie” che si sono svolte lavorando nel ristorante “sociale”.