di Andrea Friscelli
Le truppe degli avversari cominciarono ad arrivare a ondate, sempre più frequenti e fitte tra loro. Nessuno aveva previsto quell’affluenza. È vero, la bella giornata, il sole, l’aspetto incantevole dell’orto in quella stagione, con i prati scintillanti tagliati di fresco, tutte quelle cose potevano far pensare, forse dovevano far prevedere un’invasione. Ma era solo mercoledì e la brigata di cucina si trovò senza dubbio sorpresa e impreparata. Le grandi battaglie, ormai lo sapevano, erano sempre di sabato e domenica, qualche volta di venerdì, in quei giorni erano ormai abituati a reggere l’urto delle schiere nemiche, ma un mercoledì…
Così, in quella mattinata di metà giugno, rapidamente tutta la struttura difensiva si trovò sotto tiro. Ai tavoli, che parevano trincee, si accumulavano gli avventori che reclamavano un servizio rapido ed efficiente. Tutti mangiavano alla carta (la peggiore delle regole d’ingaggio che poteva capitare) e quindi bisognava prendere le ordinazioni, trasmetterle in cucina dove avrebbero preparato le munizioni, che poi portate in tavola, avrebbero chiuso, almeno momentaneamente, un fronte di battaglia.
L’intera struttura difensiva, composta di sette, otto elementi, fu sottoposta alla stressante tensione che la presenza di un centinaio di aggressivi avventori poteva motivare. Così rapidamente emersero le prime crepe. Che imprevedibilmente si manifestarono nelle retrovie, all’acquaio. Il lavapiatti non riusciva a reggere quel ritmo di lavoro, così la cucina cominciò a essere ingombra di piatti sporchi e di grosse pentole da lavare, al punto che lo chef non trovava neanche più lo spazio per impiattare le munizioni. Anche lui del resto aveva in quel frangente perso del tutto quell’aplomb che di solito gli permetteva di sovrintendere da lontano ai tavoli e guidare a vista i soldati che erano in trincea. Questi ultimi ormai non riuscivano più a prendere le giuste comande e tra loro affiorava qualche nervosismo e qualche risposta un po’ maleducata che faceva inferocire gli attaccanti.
Poi quasi all’improvviso, com’erano venute, le milizie avversarie cominciarono a diradarsi, a farsi meno aggressive, qualcuno rimaneva a prendere il sole, soddisfatto del combattimento, senza chiedere più niente, altri si erano alzati e avevano ripreso la strada del ritorno. I “nostri” si ritrovarono così stanchi da non essere in grado neppure di valutare come fosse terminata quella battaglia. Poi recuperando un po’ di lucidità e controllando il bilancio delle perdite e degli incassi, si resero conto che era stata una vittoria, magari sofferta, ma certa. Quel giorno la brigata di cucina era stata sottoposta a una situazione di grande ansia che aveva fatto emergere alcune criticità organizzative e le difficoltà caratteriali di alcuni, ma alla fine era stata superata.
Con la solenne promessa di non ricorrere più a metafore belliche che magari stancano anche un po’, confesso di aver lavorato di fantasia ma sono altrettanto certo che la stralunata descrizione di una giornata di lavoro nel nostro ristorante sia molto verosimile.
L’attività ristorativa è una di quelle che non può essere completamente programmata e che ha, per sua intrinseca natura, dei picchi fortemente ansiogeni che si alternano magari a spazi più tranquilli se non vuoti. È certo che molto dipende dal tipo di attività che si decide di svolgere (le regole d’ingaggio). Una cosa è organizzare una mensa aziendale con menù fisso o aspettare un gruppo di turisti che ha prenotato un menù per un’ora precisa, oppure una cerimonia come un matrimonio, o un catering prenotato e concordato anche se con un menù complesso e lungo, altra cosa è lavorare con numeri alti di persone che arrivano senza prenotazione alcuna e che mangiano alla carta. Nella prima specie di casi una programmazione non è complicata e diventa una difesa sufficiente, nella seconda invece diventa difficile prevedere con esattezza il flusso di lavoro che bisognerà affrontare. E come per tutte le attività lavorative così caratterizzate, in realtà l’unica difesa, in grado di salvaguardare una certa efficienza, diventa una programmazione ancora maggiore, una strutturazione quasi paramilitare, che stabilisca il minimo di personale necessario per affrontare il massimo prevedibile, e poi gli orari e le mansioni che ho illustrato nella precedente puntata. Ecco allora che si spiega la necessità di un corpo militare, la “brigata di cucina”, e dei suoi ruoli. Paradossalmente e con tutte le enormi differenze che volete, quest’attività è simile a quella di un Pronto Soccorso ospedaliero in cui ci sono momenti di un’attività forsennata e molto ansiogena e altri di minor lavoro, entrambi quasi sempre non prevedibili. La risposta organizzativa (che si basa sull’inconscia paura di essere travolti dagli eventi) per situazioni simili, sta nel creare una squadra unita e coesa che si ponga come una barriera in grado di reggere l’urto che può arrivare.
Ed ecco allora la domanda cui cercherò di rispondere nella prossima puntata.
Non è forse una “mission impossible” inserire in una squadra simile, sottoposta alle tensioni che ho cercato di raccontare, soggetti con rendimento scarso, difficilmente in grado di riconoscersi parte di una squadra e molto più inclini a sentirsi di solito ignorati o addirittura disprezzati dagli altri?
Vi anticipo che non sarò certo in grado di dare una risposta univoca (si – no), ma il lavoro fatto in questi anni mi permetterà di riportare diverse riflessioni al proposito.
Alla prossima.