di Andrea Friscelli
Lo scopo delle cooperative sociali d’inserimento al lavoro (nel gergo legislativo sono chiamate B distinguendole da quelle di tipo A che hanno compiti diversi, pur operando sempre nell’ambito sociale) è quello di trovare spazi di occupazione per soggetti con “svantaggi” i più vari. È generalmente accettato che i soggetti più difficili da impiegare in attività professionali siano gli “psichici”. Con questa etichetta, per la verità vaga e molto estensiva, si classificano di solito le situazioni più svariate e a volte, diagnosticamente, lontane tra loro.
Se può essere, infatti, relativamente semplice far lavorare persone con deficit mentali di grado lieve o moderato (in genere piuttosto stabili, dopo che hanno capito il compito che ci si attende da loro), con i bipolari o i depressi diventa già più difficile (vista la loro tendenza all’instabilità, fatta di picchi emotivi “up and down”). Ancora più complicato è riuscirci con gli schizofrenici, con i paranoici e con tutte quelle persone in cui il contatto con la realtà è di solito un po’ deteriorato. Complicato, ma non impossibile, l’importante è non stancarsi, non darsi mai per vinti e provare, provare, provare…
Provare consiste nell’avere a disposizione svariate attività lavorative e capire come le caratteristiche personali di ciascuno si “incontrano” con quelle del lavoro proposto.
Cercando di essere sintetici, le cooperative sociali, che cominciano a sorgere a cavallo della fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, in concomitanza con la legge Basaglia, hanno avuto in genere due modi di nascere. Il primo vedeva un’azienda già produttiva e presente sul mercato aprirsi, per la presenza d’imprenditori illuminati (o che avevano magari in famiglia il problema di un malato), alla possibilità di formare e poi avviare al lavoro persone con difficoltà. Il secondo, invece, rintracciava la motivazione di partenza nell’interesse di chi, per il ruolo sanitario che rivestiva, si trovava a tutelare gli interessi dei propri assistiti. Mentre nel primo caso era presente la cultura aziendale e da costruire era quella di comprensione e ascolto dei bisogni dei “malati”, nel secondo era esattamente l’opposto, presente la capacità di ascolto e comprensione ma totale ignoranza di come creare e condurre un’azienda.
Ognuna delle due situazioni presentava dei pro e dei contro, ma concentrandoci sulla seconda che è quella che riguarda la cooperativa “La Proposta”, uno dei pro consisteva nella possibilità di scegliere qualsiasi attività lavorativa. Queste infatti erano tutte alla pari, visto che nessuno sapeva far nulla di preciso. Ovviamente non si potevano scegliere attività troppo difficili, impegnative o di grande responsabilità, il buon senso e la prudenza spingevano a preferire lavori che permettessero di provare e anche “sbagliare”, almeno all’inizio, con una certa leggerezza e non obbligassero ad avere competenze importanti.
Questo comportava un’apertura mentale verso diverse possibilità, tanto che in una prima fase la cooperativa si è improvvisata in attività di orticultura, di giardinaggio, di nettezza urbana, di raccolta dati, di pulizie, di custodia e portineria. Tanti dei soggetti svantaggiati sono “migrati” tra queste attività con la speranza che trovassero, con il nostro aiuto, la “scarpa” giusta.
Intorno alla metà degli anni Novanta, alle precedenti attività, si sono aggiunte idee e opportunità reali di lavoro che ruotavano intorno alla ristorazione. E su queste la cooperativa ha scelto di provarsi, con una discreta incoscienza iniziale ma con quella splendida leggerezza che caratterizza spesso le fasi nascenti delle esperienze. Pertanto nessuna cultura al proposito, nessuna consapevolezza di dove ci si andava a “infilare”, solo l’abbozzo di un’ipotesi che il luogo (l’Orto de’ Pecci), dove la cooperativa ormai da anni lavorava, potesse avere le carte in regola per accogliere persone attraverso l’offerta di cibo genuino.
La storia poi è andata avanti e nelle mutazioni che la crisi globale ha prodotto sulle possibilità di lavoro della cooperazione di tipo B, è capitato che la ristorazione sia diventata la fonte principale di reddito de “La Proposta”.
Allora in queste brevi note io, che questa storia ho vissuto dall’interno, vorrei tentare di spiegare quali e quante difficoltà s’incontrano nell’inserire persone con problematiche di tipo psichiatrico (ma anche di altro “svantaggio”) in un’attività di ristorazione fatta non in modo dilettantesco ma professionale, tale da sostenere la maggior parte del bilancio e del fatturato di una cooperativa sociale. Tanto per essere chiari è forse opportuno dare alcuni dati: essendo partiti nel 1994 con le modalità “ingenue” che ho descritto prima, nello scorso anno 2016, i pasti serviti in un anno dal ristorante in questione sono stati oltre sedicimila, il che vuol dire, fatto un piccolo calcolo, aver messo a tavola una media di sessanta/settantapersone al giorno. Per spiegare bene le difficoltà che si sono trovate nel coniugare quest’attività con le nostre finalità sociali e come si sia tentato di dare loro qualche soluzione, è necessario però partire da lontano.
Cercherò di svolgere questo percorso in una serie di brevi puntate per non stancare troppo chi deciderà di seguirci.